In alto a destra la copertina del libro fotografico di Franco Ortolani, La festa del parco Lambro,
edito da Mastrogiacomo editore Padova nel 1978. Qui sotto una immagine
degli accampamenti tratta dal Ciao 2001 n. 32/33 del 1976.

|
 |
Parco Lambro 26 giugno 29 giugno 1976
Relativamente
a questo Festival pop iniziamo proponendo due articoli di Daniele
Caroli entrambi tratti da Ciao 2001 proseguendo con l'introduzione al
libro fotografico LA FESTA DEL PARCO LAMBRO - Mastrogiacomo Editore
Images PADOVA marzo 1978 scritta da MArisa Rusconi. Infine un articolo
di Caterina Ricci tratto da Abc potete scaricarlo qui
QUATTRO GIORNI AL PARCO LAMBRO
(di Daniele Caroli tratto da Ciao 2001 n. 30 del 1 agosto 1976)
Milano.
Sesta
Festa del Proletariato Giovanile al Parco Lambro di Milano: i
quotidiani e la TV se ne sono occupati ampiamente, impegnandosi
soprattutto a mettere in risalto gli aspetti sensazionali (o presunti
tali), gli episodi di violenza, il comportamento irresponsabile di
alcuni partecipanti. Non c'è da stupirsene: va consideratoche il
compitodi un inviato in casi del genere è obbiettivamente difficile.
Ora,
non pretendo di dare una visione completa e imparziale di una
manifestazione così complessa: posso soltanto riferire quanto ho visto,
ascoltato e sentito. Ma prima di inziare con la cronaca, una
Prefazione
La
Sesta Festa del Proletariato Giovanile è stata organizzata da Re Nudo e
dai suoi circoli, dal Partito Radicale, da Lotta Continua e da altri
raggruppamenti minori. Il festival è durato quattro giorni, dal 26 al
29 giungo, e vi hanno partecipato circa 200.000 persone, con punte
massime di affluenza la prima e la terza sera (tra i 70 e i 100 mila
presenti): sono cifre da capogiro, senz'altro attendibili, che danno il
quadro d'una manifestazione davvero unica e che spiegano i contrasti
sorti a un certo punto tra gli stessi partecipanti e, d'altra parte, le
difficoltà incontrate dall'organizzazione. Le tessere d'ingressovalide
per quattro giorni costavano 1.000 lire e ne sono state vendute almeno
20.000 (come mi è stato riferito l'ultima sera): per la maggioranza si
è trattato comunque di un festival gratuito. Già nei giorni
precedenti l'apertura della Festa, migliaia di giovani con tende e
sacchi a pelo avevano invaso il parco trovandosi indubbiamente a
disagioper la mancanza di servizi igienici, di acqua potabile, di cibo
a prezzi politici, di assistenza Questi inconvenienti si erano già
verificati l'anno passato e il forte aumento degli intervenuti li ha
resi ancora più gravi.
Sabato 26
Arriviamo
verso le 20. La gente è veramente tantissima. Acquistiamo le tessere e
ci dirigiamo verso il prato grande lungo un vialetto pieno di
bancarelle che vendono di tutto, artigianato, bigiotteria, incenso,
strumenti musicali, eccetera; arrivati ai grandi stand alimentari dei
grandi gruppi organizzatori, entriamo nella sinistra del prato, in
fondo al quale è situato il parco principale (in posizione
simmetricamente opposta rispetto all'anno scorso). Tantissime
anche le tende, sia dove siamo ora sia al di fuori dell'area del
festival; è un enorme accampamento. Tra gli alberi e i cespugli
risuonano a tratti tenui e delicate note di flauti e chitarre o il
tambureggiare di bonghetti marocchini: è il "pubblico" che fa musica
per conto proprio intorno a un falò o davanti a una tenda. Torniamo al
prato grande: l'amplificazione non è ancora a punto, mentre gli
spettatori sembrano essere ulteriormente aumentati. Dobbiamo girare a
lungo prima di trovare uno spazio per sedersi sull'erba con una buona
visuale del palco. Alle 23 finalmente si comincia: l'ingrato compito di
aprire il primo spettacolo musicale del festival tocca al cantautore
Gianfranco Manfredi, che presenta tre pezzi accompagnato da un piccolo
gruppo. L'acustica non è un granché ma ci si deve accontentare. Segue
Ricky Gianco con la lunga descrizione di "Una amore", con "Mangia
insieme a noi" e "Questa casa non la mollerò": reazioni contrastanti.
Arriva poi Eugenio Finardi con il suo gruppo (Lucio Fabbri chitarra
elettrica, violino; Paolo Franchini, basso; Roberto Haliffi, batteria;
Sebastiano, percussioni) e le cose cominciano a cambiare.
Nacchere rosse, una numerosa formazione campana, dopo aver precisato di
essere un collettivo di dilettanti, presenta un trascinante e colorito
"Alli uno li puverielle" cui fa seguire altri due pezzi; purtroppo
comincia a piovere e parte degli spettatori decidono di sfollare. Un
violento temporale impedisce a Napoli Centrale di suonare; si
esibiscono più tardi i siciliani Taberna Milensis e riprende di nuovo
la pioggia.
Domenica 27
Un
amico mi telefona entusiasta per riferirmi del successo che hanno avuto
il giorno precedente, nel prato piccolo (si fa per dire), i massaggi,
gli esercizi collettivi di yoga, i dibattiti sull'alimentazione, il
tutto all'insegna dello slogan "Riprendiamoci il nostro corpo".
Intanto, però, comincia a manifestarsi una certa tensione in quella
scombinata cittadina che è sorta in pochi giorni nel Parco Lambro (pare
che i residenti fossero almeno 20.000). Tre radio libere milanesi,
Milano Centrale, Monte Stella, Canale 96, tramite un ponte radio
allestito da quest'ultima, trasmettono dei collegamenti in diretta
dalla Festa: le notizie non sono buone. Conflitti tra femministe e
alcuni partecipanti al raduno (maschi, naturalmente), uno spettacolo
degli omosessuali interrotto bruscamente da un gruppetto di oppositori,
e infine, verso sera, l'episodio più grave: viene saccheggiato un
camion di viveri dell'organizzazione. Alle 21 un temporale peggiora le
cose. Quando arriviamo sul posto piove ancora un po': si sta esibendo
Veronique Chalot, dolce folk-singer francese ben coadiuvata da una
formazione affiatata. L'affluenza è molto diminuita, ma le melodie
vagamente celtiche - adatte alla nuvolosa serata- vengono apprezzate
dai presenti. È un bel momento che l'amplificazione rende bene.
Arrivano i vocalizzi di Jenny Sorrenti subito dopo l'intimista Patricia
Lopez. Gli Agorà, con il loro semplice e rilassato jazz-rock,
riscaldano l'ambiente. Un nuovo acquazzone, a mezzanotte, alontana
parte del pubblico; poi si presentano i Lyonesse nella nuova formazione
a quattro e infine Napoli Centrale in scena fino alle 2 del mattino.
Lunedì 28
La
giornata inizia male. Le discussioni e gli scontri all'interno del
festival si fanno più accesi fin dalla mattina; poi alcune decine di
incoscienti tentano di assaltare un supermercato presso il Parco
Lambro, la polizia spara dei candelotti lacrimogeni e il gas arriva
fino alla tendopoli suscitando comprensibile panico. Si diffondono voci
allarmistiche secondo cui le forze dell'ordine vorrebbero sgombrare
l'area della festa, e nel pomeriggio comincia un'assemblea generale dei
partecipanti alla manifestazione. La riunione assume dimensioni enormi
(migliaia di persone). Il dibattito verte sulla gestione della
manifestazione: per ore si alternano al microfono del palco grande
oratori spesso in contrasto tra loro; pesanti critiche vengono rivolte
all'organizzazione ma anche ai gruppi spontaneistici il cui
comportamento violento ha accresciuto la tensione. Si prpone la
sospensione immediata del festival, ma alla fine (è già sera) è
approvata la mozione dell'organizzazione per la ripresa del programma
normale. Verso le 22 e 30 cominci a suonare il gruppo di Don Cherry
(ospite tony Esposito alla batteria), di fronte a una fola enorme.
All'inizio gli ipnotici ritmi africani, i canti tribali, gli
occasionali assoli di tromba del grande jazzman faticano a riscuotere
l'attenzione del pubblico, ma dopo due o tre pezzi, si compie un
piccolo grande miracolo: decine di migliaia di persone, finalmente
coinvolte, dimenticano i contrasti della giornata e si mettono a
battere le mani a tempo e a cantare in coro. S'accendono innumerevoli
fiammelle e si ascolta finalmente partecipi ed uniti una musica
semplice serena e affascinante. Dopo tanto discutere, si placa
l'animosità e subentra un - non evasivo- rilassamento. Grazie a Don
Cherry e ai suoi musicisti, grazie al fascino d'una musica antica e
insieme nuova, calda e siggestiva, viviamo il momento più bellodella
grande manifestazione. un trionfo. La femminista Daniele
Cambio, voce esile e chitarra, viene accolta con simpatia; il
Canzoniere del Lazio riporta eccitamento con un'esibizione sanguigna e
ricca di colori in cui il "free" si fonde efficacemente al folklore
meidionale. Quindi Roberto Cacciapaglia, La Strana Officina, Pino Masi,
i Jumbo. Si finisce tardissimo.
Martedì 29
Con
Don Cherry sembra essere tornata la tranquillità. Non cessano le
discussioni, né tantomeno i disagidegli accampati, ma i toni sono
smorzati e c'è più voglia di costruire che di distruggere. Nel
pomeriggio nuova grande assemblea, altro importante momento di
verifica, di proposta e - perché no - di contestazione. Questi ampi
dibattiti hanno chiarito le idee, favorito gli scambi d'opinione,
mostrato quali fossero le contraddizioni, e leincomprensioni
all'internod'una massa così eterogenea e così vasta. Alla sera
s'inizia al solito molto tardi (gli orari degli spettacoli sono sempre
stati assurdi; non si capisce per quali motivi si dovesse iniziare in
genere dopo le 22 per finire alle 4 o alle 6 del mattino) con i facili
ritmi di Bambi Melodies. Poi Alberto Camerini, voce e chitarra, e i
Sensation's fix. Proiezione sullo schermo grande a fianco del
palcoscenico (usato soprattutto per riprendere e ingrandire in diretta
i musicisti durante lo psettacolo) del film "Il fantasma del
palcoscenico". Poi Pepe e la musica delicata del suo piccolo gruppo,
Claudio Rocchi e forse qualcun'altro. Alle 2 sul prato piccolo inizia
una rappresentazione del Living Theatre. La festa si chiude con Toni
Esposito, ottimamente ricevuto, e con gli Area.
Questa
è la cronaca. Ma quest'anno la Festa del Proletariato Giovanile ha
offerto molto di più della musica e degli slogan dei vari gruppi
organizzatori. È stato terreno di scontro e d'incontro, momento di
concretizzazione delle aspettative e delle incertezze d'un movimento
che coinvolge centinaia di migliaia di persone. Bisognerà riparlarne
per tracciarne un bilancio a mente fredda.
Daniele Caroli
PARCO LAMBRO
(di Daniele Caroli tratto da Ciao 2001 n. 32-33 del 15-22 agosto 1976)
«Un bilancio definitivo dal punto di vista economico lo potremo fare soltanto in ottobre», mi spiega Andrea Valcarenghi, «perché
allora avremo un panorama completo delle spese affrontate. Ti posso
anticipare qualche cifra approssimativa: circa 30 milioni di uscite,
con un passivo di oltre 2 milioni, cui va aggiunto il danno subito da
Re Nudo per lo stand alimentare saccheggiato, altri 5 milioni. Sono
state distribuite 32 mila tessere, di cui 28.000 effettivamente pagate
(l'anno scorso erano state 22.000): abbiamo calcolato una presenza
quadrupla rispetto alle tessere, per cui i partecipanti ai quattro
giorni del raduno devono essere stati almeno 120 mila. Inoltre è
aumentato enormemente il numero delle persone stanziate nel Parco, che
quest'anno erano ben più di 10.000, e questo ha comportato gravi
problemi organizzativi e ha contribuito a creare un clima di tensione.
La Provincia ci ha boicottati non provvedendo all'allacciamento per
l'energia elettrica ed è mancata anche la fornitura d'acqua da parte
del Comune».
Queste le
cifre riguardanti la Sesta Festa dei Proletariato Giovanile tenutasi
per la terza volta consecutiva al Parco Lambro di Milano. Chiedo a
Valcarenghi quali conclusioni sono state tratte dall'esperienza
dell'edizione '76 del festival, quella che ha registrato la più alta
affluenza di pubblico ma anche momenti drammatici ed episodi di
violenza.
«E' stata
senz'altro un'occasione importantissima per capire una realtà sociale
vastissima ed eterogenea. Ma ci siamo resi conto che manifestazioni di
simili dimensioni sono ormai inadeguate: le incomprensioni, le
contraddizioni, le difficoltà organizzative, quando si ha a che fare
con una partecipazione così estesa, tendono ad annullare ogni
possibilità di controllo. Se dovessimo ripetere l'esperienza nella
stessa situazione l'anno prossimo, avremmo probabilmente a che fare con
200-250 mila persone: uno sforzo impossibile, a meno di creare
strutture tecnico-organizzative davvero imponenti, destinate però a
divenire soffocanti e ad approfondire ulteriormente la separazione tra
gestione e pubblico. Il nostro obiettivo era stato, nelle ultime tre
Feste, quello di portare nella metropoli certe tematiche e
problematiche: l'abbiamo raggiunto. Ora puntiamo a iniziative limitate
lontano dalle città, che coinvolgano maggiormente i partecipanti, in
ambienti che garantiscano maggior libertà d'azione per tutti con un
minimo d'organizzazione».
Questo
Festival dei Parco Lambro è stato probabilmerite l'ultimo, quindi si
tornerà con proposte più mature - alle situazioni di Ballabio,
dell'Alpe dei Vicerè, di Zerbo. Un primo sentore di questo cambiamento
di rotta l'avevo d'altronde già avuto conversando con alcuni
responsabili dei servizio d'ordine, l'ultima notte al Parco Lambro. «A
queste condizioni, il festival non potrà essere ripetuto l'anno
prossimo: tutto dipenderà dalla situazione dei movimento, da quello che
la gente avrà in testa, da quali nuove radicalizzazioni possono
esplodere nel frattempo. Si tratterà di vedere con che tipo di
mentafità verrà qua la gente, se con quella dei giovane disgregato o
con quella dei giovane che va a unificarsi con altri giovani». E inoltre:
«Dopo Licola, s,era pensato che il movìmento andasse avanti; in realtà,
non c'è stata la forza di creare situazioni nuove. Fino alla prima
assemblea, qui al Lambro si sentiva dire da tutti che le cose non
andavano bene; con le grandi assemblee degli ultimi due giorni mi
sembra si sia fatto un passo avanti anche rispetto a Licola. Sta a noi
ora, incanalare tutte le indicazioni emerse da questi dibattiti».
Nel
«Prato piccolo», parallelamente alle attività più spettacolari
riservate al palco principale, hanno avuto un buon successo gli
esercizi collettivi di yoga, le lezioni pratiche di automassaggio, le
discussioni sull'alimentazione: un'esperienza che ha dato risultati
pressoché immediati, visto che è già stata ripresa qua e là per
l'Italia in altre manifestazioni (seppur non nelle dimensioni assunte
alla Festa milanese), e che sarà uno dei punti nodali del prossimo
festival di Re Nudo, dovunque si tenga.
Intanto
però sono le questioni finanziarie a prendere il sopravvento nelle
considerazioni del dopo-festival il prossimo numero di Re Nudo lancerà
una sottoscrizione tra i lettori per rimediare in qualche modo al forte
passivo previsto. Sul piano discografico, pare che la Produttori
Associati intenda impiegare le registrazioni «live» realizzate durante
la manifestazione per un album che verrebbe pubblicato in autunno.
Ancora non sì hanno però particolari sugli artisti che vi sarebbero
rappresentati.
Un'ultima
osservazione. Tante polemiche, tanti dibattiti tanti interventi: ma
nessuno ha pensato di far notare alla grande massa dei partecipanti che
la «festa» si svolgeva a due passi da un cadavere putrescente. Il fiume
Lambro, ridotto a una fogna dagli scarichi industriali, avvelena la
vegetazione dei parco e rende in taluni punti l'aria irrespirabile: un
disastro ecologico, come ben sanno gli abitanti dei paesi situati sulle
sue rive a sud di Milano. Eppure, un simile attentato alla salute di
tutti (animali e piante compresi) è stato assolutamente ignorato.
Daniele Caroli
LA FESTA DEL PARCO LAMBRO
Su
Parco Lambro 1976, sesta – e ultima? – festa del proletariato giovanile
sono stati versati fiumi d’inchiostro. Nessuno ha rinunciato a dire la
sua. Ed ecco il raccontino del giornalista con ambizioni (frustrate) da
sociologo e quello del sociologo “buono per tutte le stagioni”, tipico
prodotto della pseudocultura “all’italiana”, chiamato e
disponibilissimo ed interpretare qualsiasi macro o micro fenomeno: la
crisi economica, il monokini, la pornografia, la disoccupazione,
l’inflazione, il punk, il rock, la transessualità, la bisessualità ecc.
Ed ecco ancora l’analisi dello psicanalista d’assalto – naturalmente
lacaniano – con le sue brave formule “da divano”. Quanto
all’onnipresente – e senza dubbio insuperabile – semiologo, questa
volta supera perfino se stesso fornendo un’interpretazione in chiave di
millenarismo: scopre cioé un’impressionante analogia che collega il
“movimento” dei giovani di oggi ai movimenti “apocalittici” tra il
primo Medioevo e la Riforma, rafforzando la sua tesi con la seguente
affermazione, certo puntuale ed esatta: “Quella dell’Apocalisse è
un’escatologia rivoluzionaria“. Insomma, a parte gli esempi di cultura
autentica, come quello appena citato, la schiera degli “esperti” in
giovani – quasi sempre signori di mezza età malati di giovanilismo, ma
che dei giovani quasi sempre non capiscono niente –, in quel giugno
milanese appiccicaticcio e violento, sembrava infinita. Certo io
stessa, allora, non mi sottrassi alla curiosità, personale e
professionale, di vivere la “quattro giorni del Parco Lambro” e allo
stimolo di scriverne (molti, purtroppo, ne scrissero senza neppure
metterci piede). Quello che scrissi allora, a caldo, sotto la spinta di
emozioni anche abbastanza scombussolanti (non ho mai creduto a quella
regola del “decalogo del buon giornalista” che impone distacco e
freddezza), quello che scrissi, dicevo, non mi pare di doverlo
rinnegare. Inevitabile, però, a distanza di tempo, riconoscere i limiti
di cronaca contingente (anche se proiettata oltre il folclore delle
apparenze).
Questa premessa per
arrivare a un punto che mi sembra fondamentale: occorre sgombrare
subito il campo dagli equivoci a cui potrebbe prestarsi un libro di
immagini su “Parco Lambro 1976”. L’equivoco più ovvio (con le
conseguenti giuste accuse)? Che si tratti di una specie di
retrospettiva del “movimento” quale era un anno e mezzo fa e quale non
ha più potuto essere, proprio a partire da quella data, giugno ’76, da
quella festa. Un album dei ricordi da sfogliare con amore, rabbia,
rimpianto, forse in certi punti disgusto, a seconda dei sentimenti con
cui lo si è vissuto allora; ma pur sempre come qualcosa di
irrimediabilmente concluso, nel bene e nel male; paradiso-inferno
sepolto nella nebbia di una non dimenticata ma pur sempre perduta
adolescenza. Se così fosse, se le immagini di Franco Ortolani
rappresentassero semplicemente questo, la testimonianza di una stagione
ancora recente ma già mitizzata dal ricordo ( proprio come le
violaciocche e i pensieri d’amore negli album delle ex-signorine di
buona famiglia), l’accusa all’editore e agli autori, di aver fatto
un’operazione “retro”, come tante di moda oggi, sarebbe fondata. lo
credo invece, che, per cogliere il vero significato del libro, questa
ottica vada addirittura rovesciata. Nel senso che forse il fotografo
agì allora senza la consapevolezza totale di fermare con il suo
obbiettivo qualcosa di irripetibile e – perché no?, non abbiamo paura
di certe definizioni – di storico, così come piena consapevolezza non
poteva esserci per noi che cercavamo di chiudere le immagini nelle
parole. Tuttavia, proprio con il vantaggio “ottico” dei diciotto mesi
che vennero dopo, con la lente di ingrandimento fantastica – ma quanto
reale – della prospettiva in cui possiamo oggi valutare l’ultimo Parco
Lambro, ecco che questo documento fotografico supera lo stesso realismo
– e talvolta iperrealismo – delle immagini per assumere un valore
emblematico. Direi anzi che, quanto più, volti, corpi, oggetti,
ambienti appaiono nella cruda, spesso inevitabilmente sgradevole luce
dell’iperrealismo, e tanto più diventano simboli, immagini premonitrici
del “dopo”.
Perché oggi sappiamo che
Parco Lambro non fu, o non soltanto, l’ “Apocalisse del pop”, come i
più fantasiosi la definirono, o l’ “Apoteosi della provocazione”. E,
contrariamente a quanto affermarono alla fine dei quattro giorni gli
stessi organizzatori, stanchi, incazzati, confusi, non fu neppure
“l’ultima festa del movimento”. Piuttosto, proprio lì, dallo sfacelo
del mito di un certo modo di stare insieme – pace, amore e misticismo
collettivo, musica come droga e droga come musica ecc. – nacque la
necessità di trovare altre strade, altri modi. E vennero, infatti,
altre feste. Alcune quasi clandestine e per pochi iniziati – i “nuovi
mistici” – come quella di Guello (giugno ’77); altre di grande massa,
come quella di Bologna (settembre ’77), che certo qualche militante
ortodosso, anche se della sinistra “nuova”, considererà eresia chiamare
festa, ma che è stata, invece, senza alcun dubbio, una delle più grandi
“sagre” del movimento. Un festival senza orchestre e divi pop-rock,
senza danze collettive e girotondi di corpi nudi sotto la pioggia, ma
con lunghi e anche gioiosi cortei, canti e slogans, (contrariamente
alle previsioni più pessimistiche, ma anche plausibili, le P38
tacquero). E, soprattutto, con un’intera città per palcoscenico,
anziché un recinto grande molti chilometri ma pur sempre ghetto
dell’emarginazione e dell’autoemarginazione, un parco spelacchiato; e
ricoperto di rifiuti, ai margini della metropoli. È chiaro dunque, che
nel fallimento del Parco Lambro ’76, se così vogliamo chiamarlo,
drammatizzando un po’ i termini, c’era già l’embrione di un nuovo
movimento, o meglio, della trasformazione del movimento e della sua
separazione in diversi filoni, spesso contradditori, come vedremo tra
poco. Ma allora né i protagonisti né gli osservatori potevano essere in
grado di cogliere questa realtà “in fieri”. Ne registrarono solo il
punto di arrivo.
Anch’io, come
tanti, credo, ho rimpianto in quei giorni i gabbiani dell’isola di
Wight, i suoi prati da cui saliva una nebbia densa, ma che. subito il
sole colorava e trasformava in rugiada luminosa e la musica non cessava
mai, ma non era prevaricazione dal palco sulla distesa infinita dei
corpi, bensì fluido reciproco, e il cantare tutti insieme e il
prendersi tutti per mano intorno ai fuochi notturni sembrava ancora un
gesto possibile e autentico di ricerca (o un simbolo?) di amore
universale. Inevitabile farsi venire questi pensieri – o più
precisamente un nodo feroce allo stomaco – mentre si camminava sui
prati senza erba di Parlo Lambro, in mezzo a “centomila solitudini”.
Inevitabile anche fare altri confronti: per esempio, quando stava per
spuntare l’ultima alba sul festival e gli “Area”, come gran finale si
misero a suonare “l’Internazionale”, a modo loro naturalmente, mi venne
davanti agli occhi, e certo altri ebbero l’identica immagine, la
sequenza finale del film “Woodstock”, quando Jimi Hendrix intona l’inno
americano distorto e il suono lacerante corre su un prato immenso di
rifiuti. Una brutta imitazione sette anni dopo.
Ma
lasciarsi andare sull’onda dei rimpianti sarebbe stato ridicolo. E,
pazienza, ridicolo. Sarebbe stato soprattutto sterile. Come quando un
amore finisce e non si riesce a venir fuori dal labirinto del piangersi
addosso, del rapporto vischioso coi propri fantasmi, del gioco
interminabile di narcisismo-masochismo basato sul “perché è tutto
finito era così bello, di chi è la colpa?” eccetera, eccetera. Invece
di trarre da quella esperienza, anche se superata, il positivo che ogni
esperienza ha, non in senso semplicemente esistenziale ma in quello di
cambiamento, trasformazione, dinamica del rapporto interpersonale; e
quindi trarre anche nuove indicazioni per andare avanti, con continue
anche se quasi impercettibili modificazioni su se stessi, fino ad
esplodere finalmente fuori dal cerchio chiuso – e “magico” – del
proprio “ego” (o egocentrismo?) per guardare e ascoltare gli altri. A
meno che la “love-story” dolorosamente finita, non fosse in realtà,
come spesso accade, un semplice riflettere, all’infinito, la propria
immagine in un gioco di specchi, in cui l’Altro resta invisibile e così
si vuole. Ma la love-story dei primi hippies, sia quelli
della West Coast, sia quelli d’Europa, nati naturalmente un po’ in
ritardo, sulla loro onda, non era stata un gioco di specchi. Si
battevano realmente per una trasformazione della vita, volevano mettere
fiori nei cannoni, simbolicamente, ma bruciarono, nella realtà, a
migliaia, le cartoline per il Vietnam; combattevano la civiltà dei
consumi e fondavano faticose, talvolta utopiche, comuni agricole per
vivere in modo autosufficiente. Il cosiddetto Plastic-hippy, giovanotto
dalla doppia vita, di giorno irreprensibile “executive-man” o burocrate
in doppio petto, di sera con travestimenti di fiori, e spinelli, ha
rappresentato una specie abbastanza diffusa, ma anche una mela marcia
che non ha corrotto il “movimento”. Come si sa, ben altre cause, hanno
portato alla fine della sua “storia d’amore”. Troppo impari il rapporto
di forze col potere, troppo cannibalesca la struttura capitalistica
della società occidentale, troppo invadente la prepotenza del
consumismo che riuscì a riassorbire e a ridurre a fenomeno appunto di
consumo, di pubblicità e di moda anche gli hippies e il loro stile di
vita. Negli U.S.A., i figli dei fiori da tempo sono tornati a fare i
figli di papà o si sono dispersi nei mille rivoli della sottocultura
emarginata, quella che non produce nemmeno più progetti per la
Rivoluzione. Jerry Rubin, che della rivoluzione (o del suo happening?)
era stato il grande sceneggiatore, si è ritirato a vivere in campagna.
E come lui hanno fatto molti ex-“papà” degli ex-hippies. Ma non tutto
sembra perduto. Come ha scritto Franco Quadri nella introduzione a
“Siamo tanti”, dello stesso Jerry Rubin (Arcana Editrice): «... Le
parole di rivolta vengono ora soltanto sussurrate o gridate troppo
forte, tanto non fanno più eco; le luci d’Utopia sembrano spente, anche
se, in solitudine, il grande scrittore degli anni Cinquanta o il famoso
gruppo teatrale mettono ancora a profitto i loro messaggi, studiano
nuovi sbocchi, manten-gono le loro scelte di non-ubbidienza. (...).
Prima della rivoluzione». Quadri scriveva queste righe nel ’73: oggi,
forse, dopo la frase finale, dopo la parola “Rivoluzione”, bisognerebbe
mettere un punto interrogativo.
Certo,
ancor più dopo Parco Lambro ’76, fu chiaro anche per gli ex-figli dei
fiori trapiantati in Italia, che la rivoluzione non era dietro
l’angolo. “Questa festa ha segnato la fine del ’68”, fu il “refrain”
che si sentì ripetere fino alla nausea nei giorni successivi al
festival. Dalla stampa borghese, dalla stampa della sinistra già non
più extraparlamentare e da quella ancora extraparlamentare; ma anche
dagli stessi organizzatori. Seppelliamo il mito dell’immaginazione al
potere; basta con la presunzione di trasformare il “personale in
politico”, quando manca una precisa ideologia di fondo. Questo, in
sintesi, il loro pensiero. E bisogna dare loro atto di aver saputo
subito individuare i punti fondamentali di un’autocritica senza
compiacimenti. Andrea Valcarenghi, “papà” indiscusso dell’underground
italiano, fondatore e direttore di “Re Nudo” e organizzatore di tutti i
precedenti festival del proletariato, fu ancora più preciso.
Raccontando, poco più tardi, in “Non contate su di noi” (Arcana
Editrice), come lui e i compagni avevano vissuto la fase preparatoria
di Parco Lambro ’76, scrisse: «Con l’avvicinarsi dell’estate, quasi
automaticamente ci troviamo con il cartello dei gruppi, più i circoli
proletari, gli autonomi e gli anarchici a preparare la VI festa del
proletariato giovanile (...). Decine di giovani proletari arriveranno
da tutta Italia. Nessuno ipotizzò quello che sarebbe successo, nessuno
accennò alla possibilità che la proiezione collettiva dei fantasmi
della disperazione avrebbe materializzato mostri da combattere.
Nessuno
previde che per tanti di noi ancora è necessario darsi un nemico
esterno per potere sentirsi uniti contro qualcosa o qualcuno». Anche se
“col senno di poi”, Andrea ha colto nel segno: il discorso della
disperazione che genera violenza fino al punto di partorire “nemici
esterni”, è indispensabile per capire l’esplosione di comportamenti
violenti, che caratterizzò, non solo Parco Lambro ’76, ma molte delle
grandi manifestazioni giovanili a partire da allora. Andiamo avanti col
suo racconto: «Durante il lavoro delle nove commissioni che discutono i
problemi del festival è in tutti vivissimo il ricordo dell’anno
precedente, senza dubbio la più grande festa giovanile che sia mai
stata organizzata in Italia. Un clima di tranquillità e allegria
sovrasta la discussione sui preparativi; addirittura non viene dato il
giusto peso a clamorose defezioni ai lavori di commissione, soprattutto
da parte dei circoli e degli autonomi. Più tardi Luigino Ambrosi (uno
dei rappresentanti più autorevoli dei circoli proletari), scriverà:
“Non ci sentivamo preparati: in fondo è risultata una scadenza
imposta”. In parte era vero. La festa del proletariato giovanile è
sempre stata vissuta come la prosecuzione del festival di “Re Nudo”. Il
fatto che noi avessimo deciso di passare la dire-zione del festival ai
circoli giovanili era una questione tutta nella nostra testa.
Anche
questo punto è importante per inquadrare la “sconfitta”. Gli
organizzatori arrivano alla festa già divisi tra loro, con grosse
contraddizioni, che non toccano tanto i problemi tecnici-organizzativi
quanto proprio i contenuti politici-ideologici (in questo caso sarebbe
più esatto dire i “bisogni”). E non potrebbe essere diversamente:
dietro ai “leaders” dei circoli proletari (uso il termine “leaders” per
comodità, ma so che i diretti interessati lo rifiutano), ci sta una
massa abbastanza consistente di giovani e giovanissimi, anche se con
tutta la fluidità che nasce dallo sbandamento, dall’emarginazione; i
circoli hanno il ruolo di aggregazione dei nuovi soggetti politici
venuti fuori dalle sacche del proletariato, dal profondo Sud
trapiantato nei quartieri-dormitorio delle metropoli industriali.
Questi soggetti politici emergenti, che sono tali anche se non hanno –
non possono avere – una cultura e una ideologia politica limpida,
rappresentano il prodotto della crisi economica, della
disoccupazione e sottoccupazione galoppante, dello sfacelo delle
istituzioni, dello scollamento sempre più drammatico fra civiltà
contadina e civiltà industriale, tra Nord e Sud. Che cosa possono avere
in comune col ’68 e con i suoi protagonisti? La loro comparsa sullo
scenario sociale italiano non avviene certo a Parco Lambro ’76: già da
alcuni mesi, soprattutto a Milano, perfino i benpensanti che
preferiscono ii gioco dello struzzo, non hanno potuto fare a meno di
accorgersi, con paura, della loro nuova realtà. Tuttavia, è vero che
Parco Lambro, offrendo l’occasione di trovarsi tutti insieme, elargendo
la speranza-illusione di una “città del sole”, ha reso inevitabile il
loro passaggio dal ruolo di comparse, o al massimo comprimari, a quello
di protagonisti. Ma la rappresentazione non poteva essere che a senso
unico: quella, terribile e frustrante per tutti, della loro
incazzatura, della loro solitudine, della loro ribellione impotente.
Logico, a questo punto, che, con un gioco degli scambi anch’esso molto
teatrale, il ruolo di semplici comparse spettasse, invece, ai primi
attori dei festival precedenti, fra l’altro soggetti politici molto più
omogenei: i ragazzi “alternativi” che si riconoscevano nella linea
libertaria e pacifista di “Re Nudo”, con larghe aperture, almeno fino
ad una certa fase, verso Marco Pannella, i suoi digiuni e i suoi
spinelli; poi, più verso “Lotta Continua”; con molti vacillamenti nella
linea marxista, ma con massimi spalancamenti nei confronti di Wilhelm,
Reich, Laing e Cooper. E, naturalmente, con travolgenti amori, poco
contrastati, per le filosofie orientali. Elvio Fachinelli, uno
dei pochi esperti non “finti”, uno dei pochi che a questi
incontri-massa dei giovani non va come in visita al giardino zoologico,
ha scritto: «Al Parco Lambro di alternativa non ho visto neanche
l’ombra. È come chiedersi se un pezzo di periferia urbana, mettiamo
Quarto Oggiaro, trasferito al Parco Lambro, costituisce un’alternativa.
Messo dentro Parco Lambro, compresso, ristretto, inchiodato, Quarto
Oggiaro resta Quarto Oggiaro (...). Era proprio come stare dentro il
magma su cui si costruisce tutta la nostra cultura... o “contro cui” si
costruisce. Mi sentivo tirato e scottato in tutte le direzioni. La cosa
più sgradevole era l’aspetto Kolossal, per esempio i due-trecento nudi
che a un certo punto hanno invaso la valletta, dopo la pioggia, e c’era
la nebbia; non erano affatto erotici, come volevano essere, erano
terribili; mentre giravano in cerchio con le ragazze a cavalcioni mi
sono venute in mente le foto dei lager, le illustrazioni di Doré...».
Questa osservazione di Fachinelli – lo squallido quartiere
dell’hinterland trasportato di peso al Parco Lambro – contiene già una
risposta alle molte contraddizioni del festival. Perché sarebbe troppo
semplice liquidare l’intero fenomeno con ia solita criminalizzazione
dei soliti giovani dell’Autonomia. Anche se il sovvertimento violento
delle istituzioni – e quindi anche del festival, visto in quel momento
come istituzione – è stato certo teorizzato da loro, il problema della
violenza è molto più vasto, ha radici profonde e lontane; fra l’altro,
è già presente, in modo più o meno vistoso, nel “ritratto di giovane
sottoproletario” che facevamo prima e nel suo impatto, a Parco Lambro,
con soggetti la cui diversità da se stesso, diventò per lui lacerante.
Insomma, si ha l’impressione che certe tensioni sarebbero comunque
esplose al festival. Magari senza episodi così drammatici: “l’isola
felice” trasformata in campo di guerriglia, con i candelotti
lacrimogeni che volavano in mezzo agli alberi e la minaccia di
un’irruzione della polizia per fare sgombrare il Parco; gli espropri
proletari al più vicino supermercato e l’assalto al camion frigorifero
della Motta; l’aggressività che si è espressa in tanti modi: contro gli
organizzatori; contro i cantanti; contro i polli (usati per sfamarsi,
ma anche per giocare al football); contro gli omosessuali il cui stand
venne distrutto (il mito della virilità è duro a morire, anche tra i
sottoproletari); contro le femministe, che però si sono difese
benissimo, a colpi di chitarra; contro gli spacciatori di eroina, ma
anche contro gli stessi eroinomani. Piuttosto, è giusto dire che gli
autonomi, o comunque i primi gruppi provocatori di violenza, non hanno
fatto fatica a trovare proseliti. Perché la violenza era già dentro
molti giovani. Soprattutto i più emarginati. Quelli arrivati al
festival soli, anche se in gruppo, e che ne sarebbero ripartiti più
soli di prima. I disoccupati, o anche certi giovanissimi operai che si
aggiravano come anime in pena nel grande supermercato all’aperto, in
questa specie di “Oktoberfest”, piena di dubbie salsicce e di infido
vino, in un Kolossal del cattivo consumismo, innalzato proprio da chi
aveva teorizzato di distruggere la civiltà dei consumi.
E
intanto le illusioni cadevano ad una ed una. L’illusione, ad esempio,
di una musica da vivere finalmente da protagonisti e non carne oggetti
passivi: in realtà, i partecipanti si sono trovati lontani ed estranei
dal palco su cui si esibivano le solite stars della canzone pop - rock
- folk - politica- alternativa, ma pu sempre pagatissima dall’industria
discografica. E, poi, l’altra illusione, quella di stare “insieme
veramente” e anche di fare l’amore “in modo finalmente libero” (e
liberatorio). Rileggo i miei appunti di allora. Un ragazzo venuto da
lontano: «Poteva essere, è vero, un microcosmo felice. Però per me è
più una gabbia dove tutti vorrebbero sfogarsi e sputtanarsi dalle
paranoie, ma non riescono. E, dentro la gabbia, le impotenze
aumentano». Alla luce di queste parole, non isolate, provo ancora più
chiaramente la sensazione che mi prese allora, di fronte a certi
eventi, certi comportamenti: il festival fu intriso anche di
aggressività collettiva rivolta contro se stessi. Perfino il rito dello
spogliarsi e di buttarsi cosi, nudi, sotto la pioggia, non solo non fu
una cosa erotica, come dice, appunto, Fachinelli; ma rappresentò anzi
un gesto estremamente violento, senza alcun senso di gioia e di
liberazione. Insomma, la violenza non è solo nei candelotti della PS o
nei pestaggi: ci sono tensioni più sottili, più sotterranee, ma non
meno significative di un cambiamento irreversibile. Un altro
punto della critica di Fachinelli, quello dell’aspetto Kolossal, trova
riscontro anche nell’autocritica di Valcarenghi: «Eravamo consapevoli
che il gigantismo a cui non eravamo riusciti a rinunciare, aveva già
esaurito il suo ruolo di aggregazione. Avremmo dovuto riconoscerlo
prima, non dopo l’evidenza dei fatti. La drammaticità del problema
disoccupazione-emarginazione, della disperazione, il crollo di
un’ideologia giovanile, il ruolo opportunista di tanti prigionieri del
loro compito: capire tutto questo non è stato poco. Il Lambro ’76 è
come un fascio di luce che ha fugato sogni impossibili. Senza questo
risveglio forse non avremmo avuto la forza di una svolta radicale».
lo
mi chiedo, invece, se proprio a partire dal “crollo di una ideologia
giovanile”, tutto non fu tentativo di prevaricazione del privato sul
politico. Ricerca di un edonismo già impossibile sullo sfondo di una
situazione sociale già in disfacimento; il primo passo verso una
progressiva, inevitabile, ma pur sempre pericolosa spoliticizzazione
degli “ultimi” giovani. «È questo il trucco?... Pane e circensi? Polli
e spinelli gratis? Se il potere se ne accorge addio ai Movimento. E
l’alternativa qual’è? I grilli parlanti, i capiclasse rossi?», si
domandava, anche, allora, Giuliano Zincone su il “Corriere della Sera”.
Gli rispondeva Alberto Grifi, il più sensibile regista underground
italiano, il più amato dalle nuove generazioni di cinefili
“alternativi”, e anche quello che nei suoi films meglio ha saputo, a
mio avviso, creare la sintesi attualissima, privato/politico. (Grifi
poteva rispondere con autorevolezza, poiché la “quattro giorni del
Parco Lambro” l’aveva girata tutta, con quattro telecamere, tre
arryflex, una troupe di 18 persone; risultato: 30 ore di materiale).
No, attenzione – diceva dunque, più o meno il regista – prendiamo, ad
esempio, il fatto dei polli: non è solo esorcismo o fenomeno da
psicanalisi; c’é dentro la lotta di classe, la sconsacrazione delle
merci, la riappropriazione che è un diritto politico. Naturale che
episodi simili sollevino grossi contrasti. “Lotta Continua” sostiene
che l’esproprio tra compagni è saccheggio, sciacallaggio. “Autonomia”
risponde che bisogna portare le contraddizioni della società
all’interno del festival, che altrimenti diventa un ghetto, una finta
isola felice. Il pericolo è di fare un esperimento simbolico, mettere
le contraddizioni in provetta, e fargli fare bum. Altro esempio: hai
visto il monaco buddista veneziano che faceva i massaggi? Bene, ad un
certo momento i massaggi sono diventati un fatto collettivo, perché la
gente sentiva che facevano bene, Ma questo è, appunto, un benessere da
ghetto, una cosa simbolica: quando vai in fabbrica il problema della
salute si riapre. E allora, che discorso fanno quelli dell’autonomia?
Bisogna colpire alle radici: “Il padrone ci cura per sfruttarci, noi lo
distruggiamo per non ammalarci”. Da qui nasce tutta la teoria della
violenza come risposta alla società borghese, del luddismo,
dell’anarcosindacalismo, del rifiuto del lavoro». Fermo
restando il mio convincimento sull’inevitabilità della svolta violenta
di Parco Lambro ’76, complici o no gli autonomi, è pur vero che, a
partire da questa occasione, si delineò con maggiore chiarezza una
delle componenti del “movimento”, quella appunto dell’Autonomia, che,
nei mesi successivi, sarà al centro di polemiche roventi, non solo
“fuori”, ma anche all’interno del “movimento” del ’77. Fino ad essere
rifiutata da una parte consistente dello stesso. Non solo dall’ala più
moderata, ma anche dallo femministe e dagli indiani metropolitani, che
decretarono il loro distacco “ufficiale” dagli autonomi durante la
famosa assemblea all’università di Roma il 26 febbraio ’77. Erano
passati pochi giorni dall’assurdo (e fallito) comizio di Lama davanti
all’ateneo occupato. Già, perché, nel frattempo, la “testa” del
movimento si era spostata, da Milano, a Roma e Bologna. Non a caso,
naturalmente. Le università di Roma e di Bologna sono oggi il crogiolo
di una realtà molto più esplosiva rispetto alla “Statale” milanese
(centro, invece, del movimento del ’68). Ma è importante anche la
presenza – per quanto riguarda il capoluogo emiliano – da una parte, di
un gruppo di nuovi intellettuali (“nuovi”, anche se non più giovani)
che fanno capo alla rivista “Il cerchio di gesso”; dall’altra, dei
“creativi” di “A/traverso” e di “Radio Alice”. Il movimento bolognese,
anche con lo strumento di queste voci, ha rappresentato la calamita del
con’tatto con i “nouveaux philosophes” francesi; la scintilla del
conflitto aperto col P.C.I. e la giunta rossa e, infine, il punto di
partenza per la grande manifestazione-spettacolo del settembre ’77, a
Bologna, appunto. Tutto, o quasi, è già stato detto di questo
“cinemascope” del movimento. Qui ci interessa soprattutto mettere in
luce i punti di confronto-scontro con l’altra grande festa di 15 mesi
prima, quella di Parco Lambro, appunto. Capire, ad esempio, perché, pur
essendo i suoi protagonisti altrettanto e anche più eterogenei di
allora, riuscirono a trovare dei motivi di contatto e di aggregazione
molto forti (a Bologna c’erano gli studenti del movimento, ma in un
arco assai vasto, da quelli della nuova sinistra, però moderati, fino
agli autonomi; e poi gli indiani metropolitani, le femministe, gli
omosessuali, gli emarginati, ormai ribattezzati “non garantiti”. La
ragione essenziale, mi pare, é questa: mentre a Parco Lambro fu
necessario, come abbiamo visto, inventarsi un “nemico esterno”, su cui
neppure tutti si trovarono d’accordo, a Bologna, invece, ci fu
compattezza totale nel manifestare contro la repres-sione, scatenata
negli ultimi mesi da Cossiga e dai suoi “servi”. Una repressione forse
più feroce di quella del ’68, perché ha portato alla criminalizzazione
indiscriminata del “movimento”; una repressione capillare e subdola che
ha fatto temere, nei momenti più drammatici, qualcosa di peggio della
instaurazione di uno stato di polizia, addirittura una specie di
edizione italiana del famigerato “Berufsverbot” germanico. Naturalmente
il nemico “non da inventare” era anche il P.C.I., che, dopo ia prima
fase di trionfalismo post-elettorale, aveva profondamente deluso le
aspettative dei giovani. Tutti uniti, dunque, questa volta: perfino gli
autonomi di Oreste Scalzone non sono stati emarginati, poiché aveva
provveduto lui stesso ad emarginare le frange più violente.
Ma esiste un altro motivo importante nel successo di Bologna rispetto a
Parco Lambro: “l’ultima festa del proletariato giovanile” non era
riuscita a distruggere la separazione schizofrenica
“io-faccio-qualcosa-e-tu-stai-a-guardare”, a Bologna, invece, gli
adoratori della formula magica “eliminare il palco” sono stati
finalmente soddisfatti. Il palcoscenico si è dissolto. Palcoscenico è
diventata la strada. «Siamo stati tutti quanti attori, tutti quanti
poeti, cantanti, ballerini, giocolieri». E questo ha permesso anche
l’esplodere della massima creatività, anche nei cortei più duri, anche
negli slogans più violenti: il nuovo modo tutto creativo e ironico – e
autoironico – di fare politica/non politica degli “indiani” ha
contagiato un po’ tutti. E questo (che era mancato completamente a
Parco Lambro) resterà come uno dei tratti essenziali nell’identikit del
“movimento” del ’77, anche dopo Bologna.
Nessuna
contraddizione? Tutto perfetto dunque? No, certo. Andrea Valcarenghi
pur dichiarando «le cinquanta-sessantamila persone “ritrovate” per
affermare la capacità e il diritto di esistere hanno confermato che il
movimento esiste», ne individua una importante (di contraddizione):
«Decine di migliaia di interrogativi e qualche migliaia di punti
esclamativi. Chi ha prevalso è ancora l’esclamativo, il perentorio. Di
gran lunga maggioritario è stato invece l’interrogativo, cosciente o
no, di chi schizofrenicamente saltellando gridava
“Facciamo-un-salto-di-qualità” per subito dopo urlare il suo falso
bisogno di politica con un “W Marx, Lenin, Mao-tse-tung” con cui voleva
drammaticamente esprimere il reale desiderio di socializzazione. Dopo
Bologna l’interrogativo rimane e mille microfoni delle mille radio
collegate "in tutto il convegno minuto per minuto” hanno dovuto
registrarlo».
Dunque, la
manifestazione di Bologna è stata la giusta risposta al fallimento del
Parco Lambro ’76. In che senso è avvenuto il grande salto di qualità?
Nel passaggio dalla politica della festa alla festa della politica. Per
molti dei nuovi giovani – non solo per i situazionisti – la domanda ora
è: «A quando la festa alla politica?».
Marisa Rusconi
|