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Musiche
La Spezia. Rivista trimestrale.
Il primo numero risale al marzo del 1988 ....
Contiene interviste a Robert Wyatt, Penguin Café Orchestra, Bruniferd.
Articoli su Kalahari surfers, Festival Mimi 1987, Festival Chantenay
1987. Recensioni di Dagmar Krause, Lol Coxhill, David Thomas,
French/Frith/Kaiser/Thompson, John Zorn, Charles Hayward, Bill
Bruford's Earthworks......
...e si apre con questo redazionale:
"Non capisco perché Bruce Springsteen
possa cantare Born in the Usa e essere trasgressivo
e Reitano non possa cantare Italia, tanto
più che regalando al pubblico un cuscino
da morto di fiori tricolori ha negato da solo
il proprio gesto enfatico". (Patrizio Roversi)
(1)
"Se,
come dice Goffredo Fofi, "la letteratura italiana è specchio di una
piccola borghesia intellettuale, infingarda, ipocrita e satolla" la
critica musicale non pare esserle da meno, ridotta com'è oggi, a
celebrare l'esistente (o meglio ciò che esiste in quanto consacrato dal
rapporto fra i media e l'industria culrurale). Una celebrazione
asettica e professionale per i critici delle "grandi testate
padronali", spesso ingenua e dilettantesca nelle riviste specializzate,
ed entusiastica per quelli delle testate di sinistra, ansiosi di
inchinarsai sorridenti e servili alle veline delle multinazionali del
disco, nel patetico tentativo di dimostrarsi moderni e spregiudicati
nel superamento dei "vecchi schemi ideologici".
Ma c'è forse qualcosa di più ideologico della loro esaltazione
incondizionata di qualsiasi moda le majors discografiche vogliano
lanciare, da Madonna, alle political-rock-stara tipo Style Council, U2,
Smiths etc. (che forse votano laburista, ma sicuramente ingrassano i
dirigenti fascisti delle case discografiche che li producono)?
Perché (10 anni dopo i "cantautori impegnati" e 20 dopo "The
Revolutionaires are on Columbia") ci tocca leggere gente che scrive "le
hit paradeinternazionali del disco diventano degli importantissimi
strumenti di informazione politica", senza evidentemente chiedersi se
non sia l'informazione politica a diventare un importantissimo
strumento delle hit parades del disco ?
Sembra stupido, insistere oggi sulla "non innocenza" del processo di
mediazione attraverso il quale la musica ci arriva, rispetto al quale
nessun musicista (o critico) può considerarsi neutrale (ed è la
mediazione, come in economia, a governare il processo, determinando il
campo di scelta del pubblico: non siamo certo i primi a dirlo).
Eppure, con atteggiamento profondamente ideologico (nel senso marxiano,
se ci è concesso dirlo), si continua a non considerare questo processo,
o ad assumerlo come dato di fatto naturale.
Al contrario, esistono centinaia di musicisti che hanno scelto la
strada dell'autogestione, della "resistenza alla divisione totale fra
lavoro e creatività imposta dal capitale moderno" (2), senza
atteggiamenti romantici o idealisti, ma con la concretezza, la
pragmaticità, di chi sa muoversi su un terreno minato, e la
consapevolezza "godardiana" di non voler fare musica politica, ma
politicamente.
Di questi vuole occuparsi la rivista che avete fra le mani. Senza
presunzione, ma cosciente della responsabilità di essere l'unico
strumento di documentazione, in Italia, su una rete di relazioni che va
facendosi sempre più fitta e polimorfa (e questo ci imporrà fra l'altro
di tenere sempre presente chi vi si accosta per la prima volta).
Vogliamo però chiarire subito che non ci interessa il lavoro dei
cartografi acritici. Piuttosto, ci piacerebbe individuare delle
salienze e dei percorsi rizomatici, mettere in gioco il nostro gusto e
le nostre esplicite faziosità non meno delle nostre perplessità,
divenire un punto di dibattito piuttosto che una guida Michelin. Non ci
interessa, quindi, stilare un elenco degli "indipendenti": ne
conosciamo troppi che non vedono l'ora di diventare "dipendenti" da
qualche major, o che delle major già ricalcano i metodi e gli
obbiettivi, con meno mezzi e più ferocia.
Il nostro terreno favorito di indagine sarà invece la "no man's land"
dove le barriere fra i generi mostrano delle falle e le loro gerarchie
si scompigliano (3), dove le sicurezze stilistiche vacillano
paurosamente, e le frontiere si fanno mobili e rischiose. Se per
addentrarvisi dovremo "sporcarci le mani", apprezzare valori spuri come
precarietà ed approssimazione, non vergognarci del ludico e della
parodia, bagnarci di cosmopolitismo e soprattutto essere serenamente
coscienti della memoria storica di cui queste musiche sono impregnate,
ebbene, vorrà dire che avremo già scoperto molti indizi sul loro
funzionamento.
Per dirla con John Cage: "Happy new ears!"
NOTE:
(1) P. Roversi, "Un festival così finto che sembra verissimo" Il manifesto del 6/7 marzo 1988
(2) A. Portelli, "Rock stars: working class heroes?" in I giorni cantati, n. 2 maggio/luglio '87
(3)"...che il prodotto di Ponchielli o di Respighi sia migliore, sotto
qualsiasi punto di vista, non di Parker ma di Dexter Gordon è cosa
tutta da dimostrare. Che un'opera di Zappa o dei Fugs non valga tante
delle cose che tocca ascoltare ai festival di musica contemporanea pare
ancora meno convincente" scriveva Giampiero Cane nel 1975 (Il consumo della musica,
Armando Roma, p. 106). Per chi non lo sapesse, diremo che Dexter
gordon, prima del film con Tavernier, era giustamente considerato un
musicista di non eccelso livello, e che lo Zappa di cui si parla non è
certo quello degli anni successivi (e come potrebbe?)
foto di A. Achilli
Adesso
desidero invece proporvi la segnalazione di Marco Pandin su A rivista
anarchica del giugno 1988, e come tutte le volte che lo leggo, tutte le
volte mi dico che nessuno meglio di lui, dal mio punto di vista,
potrebbe trovare le parole migliori per descrivere la cosa di cui sta
parlando:
"Da La Spezia arriva una
rivista trimestrale assolutamente unica nel suo genere, poiché tratta
con serietà, impegno e passione, esclusivamente di musicisti e
situazioni artistiche sperimentali e d'avanguardia, tutti argomenti che
nessun'altra pubblicazione affronta nel nostro paese (ma all'estero ci
sono gli esempi della tedesca Bad Alchemy, della francese
Intra-Musiques e dell'inglese Recommended Records Quarterly, tutt'e tre
indipendenti, e, per ciò che riguarda la stampa ufficiale, la rivista
mensile statunitense Down Beat, che dedica sempre più spazio alle nuove
forme musicali, pur restando strettamente legata al jazz).
Non potevo dare
definizione più imprecisa per MUSICHE, una sessantina di
pagine interessantissime, ma forse potrà aiutare di più una breve lista
di qualcuno dei temi in sommario in questo primo numero:
interviste/conversazioni con Robert Wyatt, Bruniferd, Penguin Cafe
Orchestra, le traduzioni dei testi dei sudafricani bianchi
anti-apartheid Kalahari Surfers, cronache dettagliate del Festival
Musical de Chantenay e del MIMI Festival 1987 (il ritardo non conta: ad
eccezione di A/Rivista Anarchica nessun altro giornale di qui si era
accorto di quell'evento), recensioni di dischi nuovi e meno nuovi,
tutti poco o per niente segnalati dai giornali musicali tradizionali e
dalle fanzine. Il tutto è corredato da una serie di riferimenti ed
indirizzi preziosi.
MUSICHE è davvero ottima
anche sotto il punto di vista grafico, ed è per massima parte
realizzata da Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli,
direttamente coinvolti nella situazione anche perché da lungo tempo
musicisti e ricercatori. Generalmente tutti gli articoli e le
recensioni sono ben fatte e con cognizione di causa: il tono è serio ed
impegnato, sottilmente accademico (in senso DAMS...), il tutto
confezionato con un grande senso d'amore per queste forme d'arte e di
ammirazione sconfinata (ma non per questo acritica) per i musicisti e
per le loro avventure. Impossibile del resto imbarcarsi altrimenti in
un progetto simile, totalmente autofinanziato ed autodistribuito.
Un suggerimento: vista la
scarsa diffusione di queste specie musicali, trovo sarebbe un'ottima
idea allegare un documento sonoro a ciascuno dei prossimi numeri della
rivista. Il prezzo di questo primo numero è di 4.500 lire più spese
postali (l'abbonamento a quattro numeri è di 18.000 lire) da
indirizzare all'Associazione Mongezi Feza, Piazza Brin13, 19100 La
Spezia.
MUSICHE MAESTRE tratto dal sito "nazioneindiana" ...
Alla ricerca di Nomansland
Un ricordo di Musiche (1987/1997),
una rivista di “altre musiche”
di Gian Paolo Ragnoli
“Hello, hello, hello,
Is there anybody home?
I’ve only called to say I’m sorry
The drums are in the dawn
and all the voices gone
And it seems that there are no more songs”
Phil Ochs, No More Songs
Quando
Ochs scrisse questi versi sconsolati, alla fine del sogno degli anni
sessanta, sembrava che non ci sarebbero state più canzoni, nel senso,
ovviamente, di canzoni che importasse veramente cantare, che
significassero qualcosa al di sopra (o al di sotto) del brusio
ammiccante della musica di consumo. Periodicamente torna questo
stato d’animo, ma altrettanto periodicamente, anche nei periodi più
bui, c’è sempre una No man’s land da scoprire, da attraversare, da
decifrare, dove ancora, o di nuovo, esistono suoni e parole che hanno
il desiderio di rinominare il mondo.
Gli anni ottanta sono stati una di queste stagioni.
Sotto, molto al di sotto della tendenza dominante, neoliberismo,
Reagan/Thatcher/Craxi, yuppies, “Milanodabere”, musica fatua riempita
di tastiere elettroniche, gel, pantacollant e spalle imbottite, c’era
un universo intero, un continente sconosciuto di nuove musiche che non
compariva in nessuna cartografia ufficiale.
Qualcuno doveva occuparsene.
Il progetto di Musiche nasce nella primavera dell’87 a Bologna, con la
fondazione dell’associazione Mongezi Feza, intitolata al trombettista
sudafricano morto esule in Inghilterra, che inizia subito a
organizzare, a Bologna e altrove, concerti di gruppi e musiche di
difficile collocazione, fuori dai generi codificati di rock, jazz,
contemporanea.
I primi nomi sono già una dichiarazione di poetica: Viva La Black
(“jazz” sudafricano), Julverne (belgi, tra Satie e il pop), Dagmar
Krause con John Tilbury (la cantante degli Henry Cow e un prestigioso
pianista di contemporanea con repertorio Brecht/Weill/Eisler), Pere Ubu
(“avantgarde garage” secondo la loro fantasiosa autodefinizione) e
Melody Four (tre jazzisti inglesi, Tony Coe, Lol Coxhill e Steve
Beresford che suonano “quello che gli piace”, siano le canzoni di Doris
Day, le colonne sonore di Tati, le musiche dei film dei fratelli Marx,
le sigle dei polizieschi televisivi…). L’idea della rivista nasce
immediatamente dopo, dalla consapevolezza che c’era un continente
sconosciuto a cui dare nome, una mappa da scrivere per segnalare a chi
volesse avventurarvisi i pericoli, i porti, gli approdi.
C’era la sensazione che in quel momento si stesse verificando una
congiunzione di avvenimenti irripetibili: un nuovo pubblico in
formazione, meno rigidamente diviso in generi, più aperto al nuovo, poi
il vecchio pubblico del progressive rock e/o del free jazz che in
quella fase, per una serie di motivi (anagrafici, famiglia/lavoro,
carenza di informazioni, fine della “comunità” degli anni settanta)
stava abbandonando un interesse attivo per i fatti della musica,
l’abitudine ad ascoltare con attenzione ciò che usciva dalle casse
dello stereo. C’erano, in Europa, alcuni piccoli festival, il più
importante il Mimi, a Saint Remy de Provence, che tentavano di superare
la codifica di genere, che tentavano di aprirsi a soluzioni nuove ed
eterodosse, frequentarli ci faceva sentire sintonizzati su un’onda
sotterranea che carsicamente ricompariva in superficie, riproponendo in
forma aggiornata quei dibattiti su musica e pubblico, su quali forme
espressive, quali modalità organizzative prefigurassero un diverso
ordine sonoro e di conseguenza un diverso ordine sociale, discorsi
troncati bruscamente dalla fine degli anni settanta, del “Movimento”.
Insomma ci pareva che il momento fosse “adesso”: c’era la possibilità
di gettare un ponte tra la vecchia generazione di ascoltatori, che si
stava ritirando in casa a coltivare nostalgie e a collezionare vecchi
vinili e il nuovo pubblico che vedevamo affollare i festival, a Saint
Remy come a Zurigo, a Vandoeuvre-lès-Nancy come a Chantenay, curioso e
a suo agio sia di fronte a impro jazzistiche che a suonatori di
ghironda, a clarinettisti compunti o a rocker bizzarri.
Certo né noi né questo pubblico nascevamo dal nulla.
Alle
spalle c’erano parecchie cose: i movimenti politici degli anni
settanta, il progressive rock, la “scuola di Canterbury”, Frank Zappa,
il free jazz, la contemporanea meno accademica, il folk revival meno
plastificato, riviste come Muzak e Gong in Italia e Impetus in
Inghilterra, un libro importante come Musica e pubblico giovanile di
Alessandro Carrera, il catalogo della Recommended, stipato di novità
inaudite e riscoperte fulminanti, il diffondersi di parecchie piccole e
determinate etichette indipendenti, l’idea che la musica
fosse/potesse/dovesse essere implicitamente politica.
L’editoriale del primo numero, primavera ’88 metteva esplicitamente le carte in tavola:
“…Esistono centinaia di musicisti che hanno scelto la strada
dell’autogestione, della resistenza alla divisione totale tra lavoro e
creatività imposta dal capitale moderno, senza atteggiamenti romantici
o idealisti, ma con la concretezza, la pragmaticità, di chi sa di
muoversi su un terreno minato, e la consapevolezza “godardiana” di non
voler fare musica politica, ma politicamente.
Di questi intende occuparsi la rivista che avete tra le mani. Senza
presunzione, ma cosciente della responsabilità di essere l’unico
strumento di documentazione, in Italia, su una rete di relazioni che va
facendosi sempre più fitta e polimorfa”.
E più avanti: “Il nostro terreno favorito di indagine sarà invece
quella No man’s land dove le barriere tra i generi mostrano delle falle
e le gerarchie si scompigliano, dove le sicurezze stilistiche vacillano
paurosamente e le frontiere si fanno mobili e rischiose. Se per
addentrarvisi dovremo sporcarci le mani, apprezzare valori spuri come
precarietà e approssimazione, non vergognarci del ludico e della
parodia, bagnarci di cosmopolitismo e soprattutto essere serenamente
coscienti della memoria storica di cui queste musiche sono impregnate,
ebbene, vorrà dire che avremo già scoperto molti indizi sul loro
funzionamento”.
Da
qui a quel Nirvana for Mice di cui cantavano gli Henry Cow la strada
era già segnata, anche se sfortunatamente tutta in salita…
Musiche è nata dall’intuizione di tre persone, Alessandro Achilli,
Paolo Chang e Riccardo Pioli, che si sono assunti tutti i ruoli, anche
finanziari, necessari all’uscita del primo numero. Il numero dei
collaboratori si è immediatamente allargato, a partire dal secondo
numero, collegando sintonie politico-culturali e passioni musicali da
Bologna a La Spezia, da Milano a Catania, da Roma a Rovereto, ma anche
a Parigi, Ulm, Strasburgo…Si trattava, teoricamente, di un trimestrale,
ma se pensate che tra la primavera dell’88 e quella del ’97 sono usciti
18 numeri vi renderete conto immediatamente di uno dei più grossi
problemi che Musiche abbia dovuto affrontare, la periodicità aleatoria.
Questo non era dovuto a influenze dadaiste o cageane, pur presenti tra
redattori e collaboratori, ma al ben più terreno fatto che, essendo la
rivista completamente autofinanziata, prima di poter far uscire un
nuovo numero era necessario che il precedente fosse rientrato nei
costi. Questo rendeva poi praticamente impossibile ottenere pubblicità
“pagata”, non potendo garantire i tempi d’uscita, e anche perché le
case discografiche “importanti”, tipo l’Ecm, non apprezzavano il fatto
che se un disco non ci piaceva lo si scrivesse chiaro e tondo,
quand’anche l’etichetta avesse messo pubblicità sulla rivista. Insomma,
non sapevamo stare al mondo, e come direbbe Abbie Hoffmann: “Certo
eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo
eccessivi, eravamo avventati. Ma avevamo ragione…”.
Questo
tratto caratteriale ci ha creato parecchi problemi, con amministrazioni
“progressiste”, con organizzatori culturali di rassegne “prestigiose”,
insomma con tutti quei numerosi esponenti della tendenza culturale
sordista (da Alberto) sintetizzabile nell’eterno slogan “tengo
famiglia”. Di fatto quelli con cui abbiamo collaborato, o quelli di cui
abbiamo ospitato la pubblicità sulla rivista, erano piccole realtà
indipendenti, simili alla nostra, come gli amici di Adn, di Auditorium
(i nostri “cugini” milanesi, facevano una rivista simile, ma più
seriosa, direi, di Musiche), di Tin Drum/Megatalogo, di A Rivista
Anarchica e altri desperados fuori e contro l’industria culturale,
anche quella di “sinistra”. A questo proposito bisogna raccontare
come mai ci sia stato concesso di organizzare per due anni, l’89 e il
’90, un festival nella bella cittadina di Sarzana, vicino a La Spezia.
Ci aveva chiamato l’assessore alla cultura, “indipendente di sinistra”
come si diceva allora e, lavorando con un budget minimo e tra mille
contrasti con i locali funzionari della cultura, Musiche allestì due
cartelloni eccellenti, con i migliori musicisti possibili, in quel
periodo e con quel budget, dell’area delle musiche eterodosse,
alternative, in Opposition o come le volete chiamare. Qualche nome:
Joseph Racaille, Orthotonics, Momes (con Tim Hodgkinson), British
Summertime Ends, Kahondo Style, Accordions Go Crazy, Tom Cora, etc.
etc. Detto, fatto, e presentato un progetto per il terzo anno, al
cambio dell’assessore (e, ci disse qualcuno, all’arrivo di
finanziamenti della comunità europea chiesti sulla base del programma
dei due festival precedenti) fummo scaricati senza nemmeno le buone
maniere d’uso comune e dalle ceneri nacque un altro festival, questa
volta gestito in proprio dai funzionari della cultura di cui sopra. In
sostanza gli unici referenti su cui potemmo contare erano circoli
culturali come l’Arcimboldo di La Spezia, locali come il Ketty Dõ di
Bologna, negozi di dischi come Tin Drum (poi Megatalogo) di Sarzana,
con i quali collaborammo all’organizzazione di concerti e rassegne.
Se
si guardano le copertine dei primi numeri di Musiche e si tiene
d’occhio la data si capiscono al volo un paio di cose. I primi numeri,
tra l’88 e l’89, hanno in copertina Fred Frith, John Zorn, Tenko,
Heiner Goebbels e Bill Frisell, all’epoca assai poco conosciuti, con la
parziale eccezione di Frith, noto al pubblico di estrazione progressive
per la sua lunga militanza negli Henry Cow e poi negli Art Bears. Bene,
dieci anni dopo, all’uscita del numero diciotto, che si sarebbe
rivelato l’ultimo numero della rivista, Tenko continuava a essere una
cantante giapponese poco conosciuta, se non in circoli ristretti, ma
Goebbels era diventato uno dei più importanti compositori
contemporanei, Zorn e Frisell la nuova faccia del jazz più moderno,
multiforme, contaminato e sia Frith che Frisell suonavano con Zorn nei
celebrati Naked City. Quello che voglio dire, sintetizzando brutalmente
un discorso che altrimenti occuperebbe uno spazio eccessivo, è che
tutta un’area di musicisti e di musiche che dieci anni prima era
davvero underground, in termini di conoscenza, di popolarità, di
possibilità di proporre la propria musica, dieci anni dopo, grazie al
lavoro dei musicisti prima di tutto, ma anche di riviste come la
nostra, di organizzatori coraggiosi, di qualche giornalista
“mainstream” più curioso e avvertito, era uscita dal cono d’ombra e
qualche anno dopo aver conquistato la prima pagina di Musiche (o di
Revue et Corrigée, il confratello d’oltralpe) e aver spopolato al Mimi
o a Vandoeuvre era arrivata a copertine più prestigiose, a sale da
concerto più istituzionali e a un pubblico più numeroso. Nulla di
inquietante in ciò, è la vecchia storia dei quattro ragazzi che dalle
cantine di Liverpool partono alla conquista del mondo, del giovane
camionista di Memphis, di “E’ nata una stella”. La differenza stava nel
fatto che questo processo avveniva al termine di un ciclo in cui le
istanze più progressive di quel periodo erano state assimilate, e
depotenziate, dall’incasellamento, prima inpensabile, nei ruoli del
“grande jazzista” (Zorn e Frisell soprattutto), del “grande compositore
contemporaneo” (Goebbels, ma non solo, pensate a Michael Nyman o a
Gavin Bryars), e i festival prima innovativi cominciavano ad avere
difficoltà a esistere e a resistere (il Mimi è stato costretto a
continui cambi di sede, ricorrendo altrove la benevolenza di qualche
nuovo assessore, da Saint Remy a Saint Martin de Crau, da Arles alle
isole Frioul, di fronte a Marsiglia, ma a quel punto avevamo già smesso
di andarci) e spesso tornavano a essere, per esempio il Taktlos a
Zurigo, “semplici” festival jazz, per quanto di buon livello, o
chiudevano per difficoltà economiche, come Chantenay.
C’è
ancora un’altra questione: dietro/sotto/intorno a questi musicisti e a
questi festival c’era un progetto politico-culturale, o se volete
“un’ideologia”, quella di Rock in Opposition, un collettivo di
musicisti e di operatori culturali di vari paesi, tutti indipendenti
dal punto di vista organizzativo, creativo e produttivo, fondato alla
fine degli anni settanta dagli Henry Cow con gli Stormy Six, i Samla
Mammas Manna svedesi, gli Univers Zero belgi, gli Art Zoyd e gli Etron
Fou Leloublan francesi, che cercava, nell’impeccabile sintesi di
Umberto Fiori, di interagire, partendo dalla convinzione che il rock è
definito più da un pubblico che da una musica, con quel vasto pubblico
giovanile, proponendo una musica che mantenesse il potere di
comunicazione del rock innestandovi robuste dosi di innovazione
artistica e di opposizione culturale, inserendosi all’interno di quel
processo “che in Europa va verso il progressivo superamento dei generi
musicali (rock, jazz, canzone d’autore, folk) nella direzione di una
musica viva che privilegia il momento del concerto, del contatto
immediato con il pubblico, dell’improvvisazione e della libertà
creativa”. (Citato da: Alessandro Carrera, Musica e pubblico giovanile,
Feltrinelli 1980, pagina 219).
Non è andata così.
Dieci anni dopo era chiaro che alcuni musicisti “ce l’avevano fatta”,
altri erano ripiombati nell’underground più oscuro, molte etichette
indipendenti avevano chiuso i battenti, i festival stentavano,
chiudevano o si erano collocati sotto la rassicurante coperta di un
genere. Della generosa utopia di Rock in Opposition restava poco o
nulla. Anche Musiche ne prese atto, con in più il peso personale di
dieci anni di lavoro non retribuito, di tempo strappato agli affetti,
di spiacevoli incontri con squallidi figuri gestori della “cultura
pubblica”, di incomprensioni anche da parte di chi credevamo avrebbe
dovuto capire chi eravamo e cosa stavamo facendo. Il discorso
sulle cause di quello che è, o meglio di quello che non è accaduto,
sarebbe lungo e ci porterebbe lontano. Possiamo qui dire che certo è
mancato l’incontro tra “quelle” musiche” e “quel” pubblico, che forse
un certo isolamento non ha pagato, che una contaminazione con la parte
più avanzata della New Wave post punk avrebbe potuto permettere il
contatto con un pubblico più vasto, che è mancato il ricambio
generazionale rispetto alla prima generazione dei Frith e dei Cutler, o
meglio che la seconda generazione non possedeva l’autorevolezza della
precedente per assumersi un compito così pesante.
Quali che siano le cause, queste e certamente altre, che hanno a che
fare anche con ciò che accade al di fuori dell’ambito musicale, nella
primavera del ’97 mettevamo il volto di Dagmar Krause su una copertina
viola che avrebbe segnato la fine di Musiche.
Son passati altri dodici anni, per certi aspetti sembra ieri, per altri
una vita fa quando Riccardo Pioli e Paolo Chang mi suonarono al
citofono alle tre del mattino e partimmo su una R4 rossa (no, non
“quella”) diretti a Nancy, per arrivare in tempo e accreditarci al
festival.
La
comunità dei collaboratori e dei lettori però è ancora viva, molti tra
loro continuano a scrivere, a suonare, fanno programmi in radio, due di
loro, Beppe Colli (CloudsandClocks) e Sergio Amadori (Hibou, Anemone
& Bear) hanno aperto due siti dove continuano a incrociare i fatti
della musica, va da sé con modalità affatto diverse, c’è una specie di
newsgroup dove ci si confronta, si dibatte, ci si incazza come belve
parlando di musica e a volte citando il tale articolo di Musiche come
fosse uscito ieri, c’è un gruppo di discussione su Facebook, gestito da
Massimo Giuntoli, dove si discute di Canterbury o di gesto e
significato nelle musiche innovative e a cui partecipano ragazzi che ai
tempi di Musiche andavano all’asilo.
E allora forse non avevo tutti i torti quando ho scritto:
“Quali sono state le nostre passioni
E dove ci hanno condotto?
La gioia di avere, allora, vissuto
Per una grande idea e per l’umanità
Continua a determinare le nostre decisioni
Anche dopo molto tempo in cui
Gli anni, le sconfitte, i dubbi
Ci hanno reso chiaroveggenti, consapevoli
E senza speranza”
(G.P.R., Andiamo in giro di notte)
Un
affettuoso ringraziamento ad Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo
Pioli, per avermi condotto “In the Land of Grey and Pink”…
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