Musiche

La Spezia. Rivista trimestrale.

Il primo numero risale al marzo del 1988 ....
Contiene interviste a Robert Wyatt, Penguin Café Orchestra, Bruniferd. Articoli su Kalahari surfers, Festival Mimi 1987, Festival Chantenay 1987. Recensioni di Dagmar Krause, Lol Coxhill, David Thomas, French/Frith/Kaiser/Thompson, John Zorn, Charles Hayward, Bill Bruford's Earthworks......

...e si apre con questo redazionale:

"Non capisco perché Bruce Springsteen
possa cantare Born in the Usa e essere trasgressivo
e Reitano non possa cantare Italia, tanto
più che regalando al pubblico un cuscino
da morto di fiori tricolori ha negato da solo
il proprio gesto enfatico". (Patrizio Roversi) (1)

"Se, come dice Goffredo Fofi, "la letteratura italiana è specchio di una piccola borghesia intellettuale, infingarda, ipocrita e satolla" la critica musicale non pare esserle da meno, ridotta com'è oggi, a celebrare l'esistente (o meglio ciò che esiste in quanto consacrato dal rapporto fra i media e l'industria culrurale).
Una celebrazione asettica e professionale per i critici delle "grandi testate padronali", spesso ingenua e dilettantesca nelle riviste specializzate, ed entusiastica per quelli delle testate di sinistra, ansiosi di inchinarsai sorridenti e servili alle veline delle multinazionali del disco, nel patetico tentativo di dimostrarsi moderni e spregiudicati nel superamento dei "vecchi schemi ideologici".
Ma c'è forse qualcosa di più ideologico della loro esaltazione incondizionata di qualsiasi moda le majors discografiche vogliano lanciare, da Madonna, alle political-rock-stara tipo Style Council, U2, Smiths etc. (che forse votano laburista, ma sicuramente ingrassano i dirigenti fascisti delle case discografiche che li producono)?
Perché (10 anni dopo i "cantautori impegnati" e 20 dopo "The Revolutionaires are on Columbia") ci tocca leggere gente che scrive "le hit paradeinternazionali del disco diventano degli importantissimi strumenti di informazione politica", senza evidentemente chiedersi se non sia l'informazione politica a diventare un importantissimo strumento delle hit parades del disco ?
Sembra stupido, insistere oggi sulla "non innocenza" del processo di mediazione attraverso il quale la musica ci arriva, rispetto al quale nessun musicista (o critico) può considerarsi neutrale (ed è la mediazione, come in economia, a governare il processo, determinando il campo di scelta del pubblico: non siamo certo i primi a dirlo).
Eppure, con atteggiamento profondamente ideologico (nel senso marxiano, se ci è concesso dirlo), si continua a non considerare questo processo, o ad assumerlo come dato di fatto naturale.
Al contrario, esistono centinaia di musicisti che hanno scelto la strada dell'autogestione, della "resistenza alla divisione totale fra lavoro e creatività imposta dal capitale moderno" (2), senza atteggiamenti romantici o idealisti, ma con la concretezza, la pragmaticità, di chi sa muoversi su un terreno minato, e la consapevolezza "godardiana" di non voler fare musica politica, ma politicamente.
Di questi vuole occuparsi la rivista che avete fra le mani. Senza presunzione, ma cosciente della responsabilità di essere l'unico strumento di documentazione, in Italia, su una rete di relazioni che va facendosi sempre più fitta e polimorfa (e questo ci imporrà fra l'altro di tenere sempre presente chi vi si accosta per la prima volta). Vogliamo però chiarire subito che non ci interessa il lavoro dei cartografi acritici. Piuttosto, ci piacerebbe individuare delle salienze e dei percorsi rizomatici, mettere in gioco il nostro gusto e le nostre esplicite faziosità non meno delle nostre perplessità, divenire un punto di dibattito piuttosto che una guida Michelin. Non ci interessa, quindi, stilare un elenco degli "indipendenti": ne conosciamo troppi che non vedono l'ora di diventare "dipendenti" da qualche major, o che delle major già ricalcano i metodi e gli obbiettivi, con meno mezzi e più ferocia.
Il nostro terreno favorito di indagine sarà invece la "no man's land" dove le barriere fra i generi mostrano delle falle e le loro gerarchie si scompigliano (3), dove le sicurezze stilistiche vacillano paurosamente, e le frontiere si fanno mobili e rischiose. Se per addentrarvisi dovremo "sporcarci le mani", apprezzare valori spuri come precarietà ed approssimazione, non vergognarci del ludico e della parodia, bagnarci di cosmopolitismo e soprattutto essere serenamente coscienti della memoria storica di cui queste musiche sono impregnate, ebbene, vorrà dire che avremo già scoperto molti indizi sul loro funzionamento.
Per dirla con John Cage: "Happy new ears!"

NOTE:

(1) P. Roversi, "Un festival così finto che sembra verissimo" Il manifesto del 6/7 marzo 1988
(2) A. Portelli, "Rock stars: working class heroes?" in I giorni cantati, n. 2 maggio/luglio '87
(3)"...che il prodotto di Ponchielli o di Respighi sia migliore, sotto qualsiasi punto di vista, non di Parker ma di Dexter Gordon è cosa tutta da dimostrare. Che un'opera di Zappa o dei Fugs non valga tante delle cose che tocca ascoltare ai festival di musica contemporanea pare ancora meno convincente" scriveva Giampiero Cane nel 1975 (Il consumo della musica, Armando Roma, p. 106). Per chi non lo sapesse, diremo che Dexter gordon, prima del film con Tavernier, era giustamente considerato un musicista di non eccelso livello, e che lo Zappa di cui si parla non è certo quello degli anni successivi (e come potrebbe?)

lol foto di A. Achilli

Adesso desidero invece proporvi la segnalazione di Marco Pandin su A rivista anarchica del giugno 1988, e come tutte le volte che lo leggo, tutte le volte mi dico che nessuno meglio di lui, dal mio punto di vista, potrebbe trovare le parole migliori per descrivere la cosa di cui sta parlando:

"Da La Spezia arriva una rivista trimestrale assolutamente unica nel suo genere, poiché tratta con serietà, impegno e passione, esclusivamente di musicisti e situazioni artistiche sperimentali e d'avanguardia, tutti argomenti che nessun'altra pubblicazione affronta nel nostro paese (ma all'estero ci sono gli esempi della tedesca Bad Alchemy, della francese Intra-Musiques e dell'inglese Recommended Records Quarterly, tutt'e tre indipendenti, e, per ciò che riguarda la stampa ufficiale, la rivista mensile statunitense Down Beat, che dedica sempre più spazio alle nuove forme musicali, pur restando strettamente legata al jazz). 
Non potevo dare definizione più imprecisa per MUSICHE, una sessantina di pagine interessantissime, ma forse potrà aiutare di più una breve lista di qualcuno dei temi in sommario in questo primo numero: interviste/conversazioni con Robert Wyatt, Bruniferd, Penguin Cafe Orchestra, le traduzioni dei testi dei sudafricani bianchi anti-apartheid Kalahari Surfers, cronache dettagliate del Festival Musical de Chantenay e del MIMI Festival 1987 (il ritardo non conta: ad eccezione di A/Rivista Anarchica nessun altro giornale di qui si era accorto di quell'evento), recensioni di dischi nuovi e meno nuovi, tutti poco o per niente segnalati dai giornali musicali tradizionali e dalle fanzine. Il tutto è corredato da una serie di riferimenti ed indirizzi preziosi. 
MUSICHE è davvero ottima anche sotto il punto di vista grafico, ed è per massima parte realizzata da Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, direttamente coinvolti nella situazione anche perché da lungo tempo musicisti e ricercatori. Generalmente tutti gli articoli e le recensioni sono ben fatte e con cognizione di causa: il tono è serio ed impegnato, sottilmente accademico (in senso DAMS...), il tutto confezionato con un grande senso d'amore per queste forme d'arte e di ammirazione sconfinata (ma non per questo acritica) per i musicisti e per le loro avventure. Impossibile del resto imbarcarsi altrimenti in un progetto simile, totalmente autofinanziato ed autodistribuito. 
Un suggerimento: vista la scarsa diffusione di queste specie musicali, trovo sarebbe un'ottima idea allegare un documento sonoro a ciascuno dei prossimi numeri della rivista. Il prezzo di questo primo numero è di 4.500 lire più spese postali (l'abbonamento a quattro numeri è di 18.000 lire) da indirizzare all'Associazione Mongezi Feza, Piazza Brin13, 19100 La Spezia.

MUSICHE MAESTRE tratto dal sito "nazioneindiana" ...

Alla ricerca di Nomansland
Un ricordo di Musiche (1987/1997),

una rivista di “altre musiche”

di Gian Paolo Ragnoli

“Hello, hello, hello,
Is there anybody home?
I’ve only called to say I’m sorry
The drums are in the dawn
and all the voices gone
And it seems that there are no more songs”

Phil Ochs, No More Songs

Quando Ochs scrisse questi versi sconsolati, alla fine del sogno degli anni sessanta, sembrava che non ci sarebbero state più canzoni, nel senso, ovviamente, di canzoni che importasse veramente cantare, che significassero qualcosa al di sopra (o al di sotto) del brusio ammiccante della musica di consumo.
Periodicamente torna questo stato d’animo, ma altrettanto periodicamente, anche nei periodi più bui, c’è sempre una No man’s land da scoprire, da attraversare, da decifrare, dove ancora, o di nuovo, esistono suoni e parole che hanno il desiderio di rinominare il mondo.
Gli anni ottanta sono stati una di queste stagioni.

Sotto, molto al di sotto della tendenza dominante, neoliberismo, Reagan/Thatcher/Craxi, yuppies, “Milanodabere”, musica fatua riempita di tastiere elettroniche, gel, pantacollant e spalle imbottite, c’era un universo intero, un continente sconosciuto di nuove musiche che non compariva in nessuna cartografia ufficiale.
Qualcuno doveva occuparsene.
Il progetto di Musiche nasce nella primavera dell’87 a Bologna, con la fondazione dell’associazione Mongezi Feza, intitolata al trombettista sudafricano morto esule in Inghilterra, che inizia subito a organizzare, a Bologna e altrove, concerti di gruppi e musiche di difficile collocazione, fuori dai generi codificati di rock, jazz, contemporanea.
I primi nomi sono già una dichiarazione di poetica: Viva La Black (“jazz” sudafricano), Julverne (belgi, tra Satie e il pop), Dagmar Krause con John Tilbury (la cantante degli Henry Cow e un prestigioso pianista di contemporanea con repertorio Brecht/Weill/Eisler), Pere Ubu (“avantgarde garage” secondo la loro fantasiosa autodefinizione) e Melody Four (tre jazzisti inglesi, Tony Coe, Lol Coxhill e Steve Beresford che suonano “quello che gli piace”, siano le canzoni di Doris Day, le colonne sonore di Tati, le musiche dei film dei fratelli Marx, le sigle dei polizieschi televisivi…). L’idea della rivista nasce immediatamente dopo, dalla consapevolezza che c’era un continente sconosciuto a cui dare nome, una mappa da scrivere per segnalare a chi volesse avventurarvisi i pericoli, i porti, gli approdi.
C’era la sensazione che in quel momento si stesse verificando una congiunzione di avvenimenti irripetibili: un nuovo pubblico in formazione, meno rigidamente diviso in generi, più aperto al nuovo, poi il vecchio pubblico del progressive rock e/o del free jazz che in quella fase, per una serie di motivi (anagrafici, famiglia/lavoro, carenza di informazioni, fine della “comunità” degli anni settanta) stava abbandonando un interesse attivo per i fatti della musica, l’abitudine ad ascoltare con attenzione ciò che usciva dalle casse dello stereo. C’erano, in Europa, alcuni piccoli festival, il più importante il Mimi, a Saint Remy de Provence, che tentavano di superare la codifica di genere, che tentavano di aprirsi a soluzioni nuove ed eterodosse, frequentarli ci faceva sentire sintonizzati su un’onda sotterranea che carsicamente ricompariva in superficie, riproponendo in forma aggiornata quei dibattiti su musica e pubblico, su quali forme espressive, quali modalità organizzative prefigurassero un diverso ordine sonoro e di conseguenza un diverso ordine sociale, discorsi troncati bruscamente dalla fine degli anni settanta, del “Movimento”. Insomma ci pareva che il momento fosse “adesso”: c’era la possibilità di gettare un ponte tra la vecchia generazione di ascoltatori, che si stava ritirando in casa a coltivare nostalgie e a collezionare vecchi vinili e il nuovo pubblico che vedevamo affollare i festival, a Saint Remy come a Zurigo, a Vandoeuvre-lès-Nancy come a Chantenay, curioso e a suo agio sia di fronte a impro jazzistiche che a suonatori di ghironda, a clarinettisti compunti o a rocker bizzarri.
Certo né noi né questo pubblico nascevamo dal nulla.

Alle spalle c’erano parecchie cose: i movimenti politici degli anni settanta, il progressive rock, la “scuola di Canterbury”, Frank Zappa, il free jazz, la contemporanea meno accademica, il folk revival meno plastificato, riviste come Muzak e Gong in Italia e Impetus in Inghilterra, un libro importante come Musica e pubblico giovanile di Alessandro Carrera, il catalogo della Recommended, stipato di novità inaudite e riscoperte fulminanti, il diffondersi di parecchie piccole e determinate etichette indipendenti, l’idea che la musica fosse/potesse/dovesse essere implicitamente politica.
L’editoriale del primo numero, primavera ’88 metteva esplicitamente le carte in tavola:
“…Esistono centinaia di musicisti che hanno scelto la strada dell’autogestione, della resistenza alla divisione totale tra lavoro e creatività imposta dal capitale moderno, senza atteggiamenti romantici o idealisti, ma con la concretezza, la pragmaticità, di chi sa di muoversi su un terreno minato, e la consapevolezza “godardiana” di non voler fare musica politica, ma politicamente.
Di questi intende occuparsi la rivista che avete tra le mani. Senza presunzione, ma cosciente della responsabilità di essere l’unico strumento di documentazione, in Italia, su una rete di relazioni che va facendosi sempre più fitta e polimorfa”.
E più avanti: “Il nostro terreno favorito di indagine sarà invece quella No man’s land dove le barriere tra i generi mostrano delle falle e le gerarchie si scompigliano, dove le sicurezze stilistiche vacillano paurosamente e le frontiere si fanno mobili e rischiose. Se per addentrarvisi dovremo sporcarci le mani, apprezzare valori spuri come precarietà e approssimazione, non vergognarci del ludico e della parodia, bagnarci di cosmopolitismo e soprattutto essere serenamente coscienti della memoria storica di cui queste musiche sono impregnate, ebbene, vorrà dire che avremo già scoperto molti indizi sul loro funzionamento”.

Da qui a quel Nirvana for Mice di cui cantavano gli Henry Cow la strada era già segnata, anche se sfortunatamente tutta in salita…
Musiche è nata dall’intuizione di tre persone, Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, che si sono assunti tutti i ruoli, anche finanziari, necessari all’uscita del primo numero. Il numero dei collaboratori si è immediatamente allargato, a partire dal secondo numero, collegando sintonie politico-culturali e passioni musicali da Bologna a La Spezia, da Milano a Catania, da Roma a Rovereto, ma anche a Parigi, Ulm, Strasburgo…Si trattava, teoricamente, di un trimestrale, ma se pensate che tra la primavera dell’88 e quella del ’97 sono usciti 18 numeri vi renderete conto immediatamente di uno dei più grossi problemi che Musiche abbia dovuto affrontare, la periodicità aleatoria. Questo non era dovuto a influenze dadaiste o cageane, pur presenti tra redattori e collaboratori, ma al ben più terreno fatto che, essendo la rivista completamente autofinanziata, prima di poter far uscire un nuovo numero era necessario che il precedente fosse rientrato nei costi. Questo rendeva poi praticamente impossibile ottenere pubblicità “pagata”, non potendo garantire i tempi d’uscita, e anche perché le case discografiche “importanti”, tipo l’Ecm, non apprezzavano il fatto che se un disco non ci piaceva lo si scrivesse chiaro e tondo, quand’anche l’etichetta avesse messo pubblicità sulla rivista. Insomma, non sapevamo stare al mondo, e come direbbe Abbie Hoffmann: “Certo eravamo giovani, eravamo arroganti, eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati. Ma avevamo ragione…”.

Questo tratto caratteriale ci ha creato parecchi problemi, con amministrazioni “progressiste”, con organizzatori culturali di rassegne “prestigiose”, insomma con tutti quei numerosi esponenti della tendenza culturale sordista (da Alberto) sintetizzabile nell’eterno slogan “tengo famiglia”. Di fatto quelli con cui abbiamo collaborato, o quelli di cui abbiamo ospitato la pubblicità sulla rivista, erano piccole realtà indipendenti, simili alla nostra, come gli amici di Adn, di Auditorium (i nostri “cugini” milanesi, facevano una rivista simile, ma più seriosa, direi, di Musiche), di Tin Drum/Megatalogo, di A Rivista Anarchica e altri desperados fuori e contro l’industria culturale, anche quella di “sinistra”.
A questo proposito bisogna raccontare come mai ci sia stato concesso di organizzare per due anni, l’89 e il ’90, un festival nella bella cittadina di Sarzana, vicino a La Spezia. Ci aveva chiamato l’assessore alla cultura, “indipendente di sinistra” come si diceva allora e, lavorando con un budget minimo e tra mille contrasti con i locali funzionari della cultura, Musiche allestì due cartelloni eccellenti, con i migliori musicisti possibili, in quel periodo e con quel budget, dell’area delle musiche eterodosse, alternative, in Opposition o come le volete chiamare. Qualche nome: Joseph Racaille, Orthotonics, Momes (con Tim Hodgkinson), British Summertime Ends, Kahondo Style, Accordions Go Crazy, Tom Cora, etc. etc. Detto, fatto, e presentato un progetto per il terzo anno, al cambio dell’assessore (e, ci disse qualcuno, all’arrivo di finanziamenti della comunità europea chiesti sulla base del programma dei due festival precedenti) fummo scaricati senza nemmeno le buone maniere d’uso comune e dalle ceneri nacque un altro festival, questa volta gestito in proprio dai funzionari della cultura di cui sopra. In sostanza gli unici referenti su cui potemmo contare erano circoli culturali come l’Arcimboldo di La Spezia, locali come il Ketty Dõ di Bologna, negozi di dischi come Tin Drum (poi Megatalogo) di Sarzana, con i quali collaborammo all’organizzazione di concerti e rassegne.

Se si guardano le copertine dei primi numeri di Musiche e si tiene d’occhio la data si capiscono al volo un paio di cose. I primi numeri, tra l’88 e l’89, hanno in copertina Fred Frith, John Zorn, Tenko, Heiner Goebbels e Bill Frisell, all’epoca assai poco conosciuti, con la parziale eccezione di Frith, noto al pubblico di estrazione progressive per la sua lunga militanza negli Henry Cow e poi negli Art Bears. Bene, dieci anni dopo, all’uscita del numero diciotto, che si sarebbe rivelato l’ultimo numero della rivista, Tenko continuava a essere una cantante giapponese poco conosciuta, se non in circoli ristretti, ma Goebbels era diventato uno dei più importanti compositori contemporanei, Zorn e Frisell la nuova faccia del jazz più moderno, multiforme, contaminato e sia Frith che Frisell suonavano con Zorn nei celebrati Naked City. Quello che voglio dire, sintetizzando brutalmente un discorso che altrimenti occuperebbe uno spazio eccessivo, è che tutta un’area di musicisti e di musiche che dieci anni prima era davvero underground, in termini di conoscenza, di popolarità, di possibilità di proporre la propria musica, dieci anni dopo, grazie al lavoro dei musicisti prima di tutto, ma anche di riviste come la nostra, di organizzatori coraggiosi, di qualche giornalista “mainstream” più curioso e avvertito, era uscita dal cono d’ombra e qualche anno dopo aver conquistato la prima pagina di Musiche (o di Revue et Corrigée, il confratello d’oltralpe) e aver spopolato al Mimi o a Vandoeuvre era arrivata a copertine più prestigiose, a sale da concerto più istituzionali e a un pubblico più numeroso. Nulla di inquietante in ciò, è la vecchia storia dei quattro ragazzi che dalle cantine di Liverpool partono alla conquista del mondo, del giovane camionista di Memphis, di “E’ nata una stella”. La differenza stava nel fatto che questo processo avveniva al termine di un ciclo in cui le istanze più progressive di quel periodo erano state assimilate, e depotenziate, dall’incasellamento, prima inpensabile, nei ruoli del “grande jazzista” (Zorn e Frisell soprattutto), del “grande compositore contemporaneo” (Goebbels, ma non solo, pensate a Michael Nyman o a Gavin Bryars), e i festival prima innovativi cominciavano ad avere difficoltà a esistere e a resistere (il Mimi è stato costretto a continui cambi di sede, ricorrendo altrove la benevolenza di qualche nuovo assessore, da Saint Remy a Saint Martin de Crau, da Arles alle isole Frioul, di fronte a Marsiglia, ma a quel punto avevamo già smesso di andarci) e spesso tornavano a essere, per esempio il Taktlos a Zurigo, “semplici” festival jazz, per quanto di buon livello, o chiudevano per difficoltà economiche, come Chantenay.

C’è ancora un’altra questione: dietro/sotto/intorno a questi musicisti e a questi festival c’era un progetto politico-culturale, o se volete “un’ideologia”, quella di Rock in Opposition, un collettivo di musicisti e di operatori culturali di vari paesi, tutti indipendenti dal punto di vista organizzativo, creativo e produttivo, fondato alla fine degli anni settanta dagli Henry Cow con gli Stormy Six, i Samla Mammas Manna svedesi, gli Univers Zero belgi, gli Art Zoyd e gli Etron Fou Leloublan francesi, che cercava, nell’impeccabile sintesi di Umberto Fiori, di interagire, partendo dalla convinzione che il rock è definito più da un pubblico che da una musica, con quel vasto pubblico giovanile, proponendo una musica che mantenesse il potere di comunicazione del rock innestandovi robuste dosi di innovazione artistica e di opposizione culturale, inserendosi all’interno di quel processo “che in Europa va verso il progressivo superamento dei generi musicali (rock, jazz, canzone d’autore, folk) nella direzione di una musica viva che privilegia il momento del concerto, del contatto immediato con il pubblico, dell’improvvisazione e della libertà creativa”. (Citato da: Alessandro Carrera, Musica e pubblico giovanile, Feltrinelli 1980, pagina 219).

Non è andata così. Dieci anni dopo era chiaro che alcuni musicisti “ce l’avevano fatta”, altri erano ripiombati nell’underground più oscuro, molte etichette indipendenti avevano chiuso i battenti, i festival stentavano, chiudevano o si erano collocati sotto la rassicurante coperta di un genere. Della generosa utopia di Rock in Opposition restava poco o nulla. Anche Musiche ne prese atto, con in più il peso personale di dieci anni di lavoro non retribuito, di tempo strappato agli affetti, di spiacevoli incontri con squallidi figuri gestori della “cultura pubblica”, di incomprensioni anche da parte di chi credevamo avrebbe dovuto capire chi eravamo e cosa stavamo facendo.
Il discorso sulle cause di quello che è, o meglio di quello che non è accaduto, sarebbe lungo e ci porterebbe lontano. Possiamo qui dire che certo è mancato l’incontro tra “quelle” musiche” e “quel” pubblico, che forse un certo isolamento non ha pagato, che una contaminazione con la parte più avanzata della New Wave post punk avrebbe potuto permettere il contatto con un pubblico più vasto, che è mancato il ricambio generazionale rispetto alla prima generazione dei Frith e dei Cutler, o meglio che la seconda generazione non possedeva l’autorevolezza della precedente per assumersi un compito così pesante.
Quali che siano le cause, queste e certamente altre, che hanno a che fare anche con ciò che accade al di fuori dell’ambito musicale, nella primavera del ’97 mettevamo il volto di Dagmar Krause su una copertina viola che avrebbe segnato la fine di Musiche.
Son passati altri dodici anni, per certi aspetti sembra ieri, per altri una vita fa quando Riccardo Pioli e Paolo Chang mi suonarono al citofono alle tre del mattino e partimmo su una R4 rossa (no, non “quella”) diretti a Nancy, per arrivare in tempo e accreditarci al festival.

La comunità dei collaboratori e dei lettori però è ancora viva, molti tra loro continuano a scrivere, a suonare, fanno programmi in radio, due di loro, Beppe Colli (CloudsandClocks) e Sergio Amadori (Hibou, Anemone & Bear) hanno aperto due siti dove continuano a incrociare i fatti della musica, va da sé con modalità affatto diverse, c’è una specie di newsgroup dove ci si confronta, si dibatte, ci si incazza come belve parlando di musica e a volte citando il tale articolo di Musiche come fosse uscito ieri, c’è un gruppo di discussione su Facebook, gestito da Massimo Giuntoli, dove si discute di Canterbury o di gesto e significato nelle musiche innovative e a cui partecipano ragazzi che ai tempi di Musiche andavano all’asilo.
E allora forse non avevo tutti i torti quando ho scritto:

Quali sono state le nostre passioni
E dove ci hanno condotto?
La gioia di avere, allora, vissuto
Per una grande idea e per l’umanità
Continua a determinare le nostre decisioni
Anche dopo molto tempo in cui
Gli anni, le sconfitte, i dubbi
Ci hanno reso chiaroveggenti, consapevoli
E senza speranza”

(G.P.R., Andiamo in giro di notte)

Un affettuoso ringraziamento ad Alessandro Achilli, Paolo Chang e Riccardo Pioli, per avermi condotto “In the Land of Grey and Pink”…