2
4
10
1
8
9
5
|
|
Una tazza di thè
(Not My) Cup Of Tea
di LORENZO BARBERIS. Testo tratto da
Margutte, la non-rivista online di letteratura a altro.
“It’s not my cup of tea” dicono gli inglesi per indicare qualcosa
che non è esattamente il proprio genere. Un modo garbato per esprimere
una presa di distanza, insomma. “Una tazza di tè”,
invece, non è stata “my cup of tea” in quanto non vi ho potuto prendere
parte per ragioni anagrafiche (la rivista ha chiuso nel 1976, proprio
l’anno della mia nascita).
La rivista, però, mi ha sempre
incuriosito, anche perché, di fatto, ho collaborato ad alcuni
esperimenti letterari nati a vario titolo da quella tradizione
controculturale: “Weltanschaaung” negli anni ’90, il breve esperimento
del sito “Outsiders” nel 1997-1998, e l’attuale “Margutte”.
Una
continuità segnata anche, ma non solo, dalla costante presenza di due
figure di riferimento di tali riviste (eccetto Outsiders): Attilio
Ianniello e Gianni Bava, tutt’ora in forze al nostro “Margutte”.
Insomma:
avuta la possibilità di poter esaminare finalmente i numeri di questa
mitica pubblicazione, ho colto l’occasione per inserirla in questo mio
studio sulla stampa monregalese. “Una tazza di tè” nasce, del resto,
nel 1974: mi pare dunque logico iniziare questo 2014 celebrandone il quarantennale.
Ho sempre ricondotto il riferimento alla tazza di tè del titolo al cappellaio matto di “Alice In Wonderland” di Lewis e alla sua geniale dissacrazione del rito borghese del tè delle cinque in un rito allucinatorio.
Invece, pur essendo in seguito questo riferimento presente, la Tazza di Tè del Titolo è quella di un celebre racconto zen,
come mi informa la copertina del primo numero della rivista, che lo
riporta sopra una visione psichedelica di quelli che paiono dei totem
pellirossa rivisitati.
“Nan-in, un maestro giapponese
dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore
universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo
Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi
continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non
riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più!». «Come
questa tazza,» disse Nan-in «tu sei ricolmo delle tue opinioni e
congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua
tazza?».”
Un messaggio molto chiaro rivolto al lettore,
dunque, con l’invito a spogliarsi delle proprie pregiudiziali culturali
per approcciarsi in modo autentico alla cultura orientale e,
indirettamente, forse, anche alla rivista.
Il primo
editoriale, sul retro della stessa copertina azzurrognola, è vergato in
stampatello maiuscolo, rigorosamente a mano, come sarà per la totalità
degli interventi della rivista, nei suoi tre anni di vita (1974-1976).
Fanno eccezione articoli inseriti da riviste nazionali, che sono
ovviamente a caratteri di stampa, e testi scritti da qualche
contributore più frettoloso, vergati in corsivo, per quanto solitamente
leggibile. I testi sono sempre alleggeriti e impreziositi da
illustrazioni, immagini, fumetti, dall’eccelso al naif, in una
girandola di stili e citazioni visive che contribuisce molto al mood
“anni ’70″ di cui la rivista è ovviamente impregnata.
Tornando
al primo editoriale: un Pluto da fumetto underground proclama “Potere
al popolo!” e riassume perfettamente il senso dell’editoriale stesso,
un sentito j’accuse contro la società borghese della terza rivoluzione
industriale, che ambisce a ridurre (con innegabile successo, si può
dire col senno di poi) l’uomo a mero consumatore.
Il primo
articolo affronta tale problema in riferimento alla musica, con
citazione di Frank Zappa e critica alla commercializzazione del rock,
veicolo della controcultura emersa dal ’68.
L’altro
argomento che viene affrontato, sempre con riferimento al tema della
massificazione culturale, è quello della scuola, un tema che ovviamente
mi affascina per ragioni professionali. La visione della scuola è,
ovviamente, quella di una cinghia di trasmissione della società
industriale: “la nostra società è autoritaria e selettiva, la scuola è
autoritaria e selettiva”. Non è quindi sufficiente, anzi è sterile
“accontentarsi della collaborazione di qualche professore più aperto”
ma bisogna collegarsi alle lotte operaie in corso, per una profonda
riscrittura della società stessa.
Il discorso si allarga
alla gestione del tempo libero, di cui si rifiuta la concezione nel
senso di “evasione e di sfogo” per ritornare poi rinfrancati al ciclo
produttivo.
A questa concezione si collega anche
l’atteggiamento verso la droga, che emerge nell’articolo “La droga
nera”: la strategia proibizionista avviata nei ’70 è un nuovo strumento
delle “centrali reazionarie” per esercitare un controllo sulle masse
popolari, usando in modo discrezionale lo strumento repressivo.
L’analisi
della situazione in Cile, con una disamina del golpe militare di
Pinochet contro il socialista Allende, prelude a timori diffusi, nei
numeri successivi, di golpe anche italiani.
Nel secondo
numero (in cover appare, saltato nel primo, il riferimento alla
registrazione in tribunale, espletato con data 1971, il direttore
responsabile “M. Baranghini” e l’edizione, “Stampa alternativa”)
continua nell’editoriale la critica al consumismo (“le nostre esigenze
valgono meno di un detersivo”), seguito dal discorso musicale che
alterna il prosieguo della critica al sistema con recensioni di Zappa e
citazioni di Hendrix.
Un raccontino vagamente rodariano,
“La strabomba”, nell’ovvio messaggio pacifista riflette già sul potere
televisivo, con accenti (facilmente) profetici: il Padrone, al servizio
del re e del suo portafogli, usa le TV per convincere la gente
dell’utilità del conflitto contro il nemico (talvolta, poi, il Re e il
Padrone paiono coincidere, ma questa è un’altra storia, non molto
diversa).
Il servizio sull’istruzione (la rivista non ha
rubriche, ovviamente, nel segno di un certo anarchismo culturale: ma
c’è ugualmente un frame ricorrente nella pubblicazione) riferisce della
proposta, della destra DC del tempo, di unire la diminuzione a 18 anni
della leva con la fine del rinvio per ragioni di istruzione. Lo scopo
appare evidente: abbassare l’età del militare a 18 anni per tutti,
un’età in cui si spera che i neodiplomati siano ancora malleabili alla
formazione militare, prima di essere corrotti dalla cultura
universitaria.
L’illustrazione che segue l’articolo
mostra la scuola in una concezione molto efficace, ancorché
graficamente ingenua, e perfettamente corrispondente a quella che
emerge in “The Wall” dei Pink Floyd, precedente però di cinque anni
(The Wall è del 1979).
In base alla documentazione, non è
possibile dar completamente torto alla posizione della rivista: si cita
un tema decisamente marxisteggiante di una ragazza delle medie
inferiori, cui la professoressa assegna un 4 per “idee sbagliate”.
Si
potrebbe trattare, certo, di una forzatura polemica, ma subito dopo si
porta altro materiale più verificabile, estratti dai libri di testo in
adozione a Mondovì, con citazione dell’edizione. “Libro di testo,
manganello / che rischiara ogni cervello”, intitola ironicamente
l’articolo.
E, in effetti, scorrendo rapidamente i testi
presentati sul numero successivo (qui il discorso è introduttivo) si
nota un tasso reazionario ben più alto di quello che si sarebbe atteso
nella media degli anni ’70. Qui appare più difficile la forzatura
completa, l’invenzione: chiunque avrebbe potuto facilmente controllare
quanto segnalato.
Segue un servizio ampio sulla droga e sui
vari aspetti, di taglio informativo, con inserimento di parti a stampa,
probabilmente dedotte da altri opuscoli e pubblicazioni più ufficiali
(come pure un servizio sulla famiglia, tratto dalla rivista “Il pane e
le rose”, di cui è dichiarata esplicitamente la fonte).
Rock, Drugs and School, sembra essere quindi la triade degli argomenti centrali della rivista.
Il terzo
numero, una lisergica copertina verde su cui appare la tazza di tè del
titolo al centro di un profluvio di immagini psichedeliche (l'immagine presente in alto a destra. ndc).
L’editoriale questa volta si unifica al servizio sulla
musica, che ha sempre il primo spazio (perché più importante o, forse,
perché quello più in grado di catalizzare l’attenzione del lettore?),
tra citazioni celeberrime dei Doors (“Father, I want to kill you.
Mother, i want to…”) e una allucinata splash page tutta dedicata
all’illustrazione visuale di un testo dei Jefferson Airplane dedicato
al bianconiglio (forse in quella tazza di tè c’era davvero un po’ di
Alice, allora).
Segue un articolo femminista sull’aborto
(ancora proibito, in Italia) e sul ruolo della donna: di nuovo, grande
spazio ha l’analisi dell’educazione, sia quella famigliare (le bambole
per le figlie, il meccano per i maschi) sia quella scolastica (le ore
di educazione tecnica, ancora divisi) che porta al modello della donna
quale “angelo del focolare”, costretta a svolgere gratuitamente lavoro
di assistenza sociale che il capitale non vuole pagare.
Segue
un articolo sul teatro, che riferisce del “Bread and Puppet”, teatro di
marionette inglese di Peter Shumann per l’occasione a Cuneo.
Poi,
la promessa analisi dei libri di testo, inframmezzata e come commentata
da fumetti dell’epoca: il Mago Wiz, Asterix (soprattutto molti,
fascistoidi, centurioni romani), Chiappori, Quino, Sturmtruppen. Appare
evidente l’intento provocatorio di dissacrare i sacri testi con
l’accostamento alle vignette ritenute indegne.
Curiosamente,
già nel decennio successivo, nei miei libri di media anni ’80, sparirà
un certo gusto clericofascista e appariranno invece i fumetti – nella
parte di comunicazione, in Arte e in Italiano.
“Nella
scuola che è sacra come la casa di Dio, il bambino educato non parla se
non interrogato”: una parte delle citazioni vanno nel senso della
retorica dell’obbedienza come virtù assoluta.
“Dio protegge
dai colpi del nemico il carro armato del comandante della Tridentina,
che avanza verso la vittoria”, per un altro libro; e in un altro
ancora, certamente non aggiornato, dice che “L’Italia e la Germania,
nelle poche colonie che hanno avuto, hanno lavorato a reale vantaggio
dei popoli locali”, propaganda che dopo il 1945 è così grossa da essere
controproducente.
Gli stati africani sono “regioni lontane,
dove la gente non è civile e non conosce Gesù”, e bruciano le chiese ai
pochi missionari che si sforzano di portare un poco di civiltà. Anche
qui, il tono appare più da mieloso sussidiario del ventennio, e pare
impossibile una simile arretratezza negli anni ’70. Il tono, oltre che
sostanzialmente davvero fascisteggiante, ha una patina fortemente
clericale. Viene davvero voglia di indagare in prima persona, per
vedere in quale misura è davvero così.
Non manca l’afflato
europeista, qui stigmatizzato dalla Tazza di tè: l’Europa, se
vuole rimanere la guida spirituale del mondo, deve diventare una,
“mentre l’Italia sarà un po’ come l’artista, che dà serenità e gioia”.
Si era già tenuto conto della sindrome della cicala dell’Italia, un po’
meno della favola di Esopo e La Fontaine.
Il numero 4
(il prezzo, 150 lire, appare in copertina) ci mostra un Frank Zappa nei
panni dello Zio Sam, quello dei manifesti “I want you!” della prima
guerra mondiale. In mano stringe, ovviamente, una tazza di tè, con un
aspetto complessivo da cappellaio matto.
Un servizio sulla
famiglia riporta le testimonianze di quattro ragazzi, in cui si
indagano i problemi della violenza domestica, dell’educazione
repressiva, delle conseguenza nefaste della mancata possibilità di
divorzio, o semplicemente della totale incomunicabilità.
Si
analizza poi il problema del servizio militare, già analizzato in
connessione col suo aspetto “educativo” di presunta scuola di vita da
estendere a tutti i diciottenni.
Il numero 5
passa a un costo di 200 lire, e comincia per una volta con un
editoriale di argomento cuneese, potenzialmente più concreto. Varie
realtà alternative esigono dal comune degli spazi a prezzi politici per
organizzare eventi, spettacoli, manifestazioni (il Toselli chiede
200.000 lire per serata), e il giornale ovviamente appoggia questa
campagna.
Segue un altro servizio “cuneese”, sulla
necessità di praticare antifascismo militante e staccarsi dalla
“maggioranza silenziosa” che favorisce, anche a Cuneo, il ritorno
dell’agibilità politica per i fascisti. In “Fascisti a Cuneo” si tenta
una mappatura del neofascismo cuneese. In ultima pagina, un fumetto dei
mitici “Freak Brothers” di Sheldon.
Anche il numero successivo (il 6,
che ripropone la prima cover, in una chiave leggermente rielaborata) si
apre con una maggiore attenzione alle cose cuneesi: se nel numero
precedente si erano assunti temi unitari del movimento, come
l’antifascismo e la richiesta di spazi, qui l’editoriale è dedicato
alla polemica contro “Lotta continua”.
In pagine
successive, continua lo studio critico del neofascismo cuneese, mentre
più avanti si pubblicizza l’arrivo di “Mistero Buffo” di Dario Fo a
Cuneo, e si riserva uno spazio al coordinamento degli studenti medi di
Cuneo, i quali criticano la limitata “democrazia scolastica” concessa
coi celebri Decreti Delegati di quegli anni: i rappresentanti
studenteschi sono (come ancora oggi) puramente consultivi, e non
deliberativi, e in ogni caso, in ogni consiglio ove sono presenti,
messi in assoluta maggioranza rispetto a componente docenti, componente
tecnica e componente genitori, pur essendo, in teoria, i fruitori del
servizio.
Col numero 7
(marzo 1975), si passa a un nuovo formato, a ciclostile, a causa del
deficit (di 200.000 lire) che affligge la rivista dopo i primi 6 numeri
a stampa. Si torna a trattare di temi generali, non ancora affrontati:
gli psicofarmaci, la sessualità liberata, l’aborto, i manicomi
psichiatrici, ovviamente tutto da una posizione decisamente libertaria.
Il numero 8,
a ottobre ’75, vede un nuovo ritocco del prezzo a 300 lire, con una
cover che alterna minacciosi proclami contro i padroni e una lisergica
immagine di un piccolo diavoletto barbuto seduto su un fungo
allucinogeno (il Bafometto sarà poi un simbolo ricorrente nella grafica
di Poesia nella strada, la rivista erede della Tazza di tè)
Continua
lo studio sugli psicofarmaci, che include l’indagine sull’anfetamina e
il suo uso per superare situazioni di stress scolastico come la
maturità o gli esami universitari (sotto il significativo titolo “La
scuola spaccia droga?”).
E l’esame di maturità in sé è al
centro di un altro articolo, che mette in guardia dal limitare la lotta
scolastica a lotta sindacale per ottenere servizi a prezzi minori e, al
limite, promozioni più facili (ovvero, un semplice attenuarsi del
“meccanismo repressivo” di promozioni-bocciature); riconoscendo che
ormai, con percentuali di maturi tra il 90 e il 95 %, la repressione
sia solo “simbolica”, salvo singoli casi, ancor più insensati nel
quadro generale (l’articolo se la prende, in particolare, con una
strage operata da commissari esterni al Baruffi di Mondovì).
Il numero 9
(gennaio 1976) presenta di nuovo una polemica locale col circolo
Pinelli di Cuneo, relativamente al concerto di Edoardo Bennato e ad
altre manifestazioni culturali realizzate in modo “strumentale” (ovvero
per fare attività commerciale in modo informale, non come strumento di
azione politica). La critica viene rilanciata con una corrispondenza da
Torino, dove si avanzano le stesse contestazioni allo spettacolo
torinese di Bennato (“le cui precisazioni circa la sua posizione non
solo non sono affatto chiare, ma sembrano per lo più un modo di
prendere per i fondelli la gente, incazzata e no, presente”:
probabilissimo, dato lo stile ironico di Bennato). Le cifre che gli si
contestano sono di un milione per lo spettacolo cuneese, due milioni
per quello torinese, sembrano ai giorni d’oggi tutto sommato
accettabili (la cifra va moltiplicata per cinque, all’incirca, e
Bennato al periodo era già autore affermato).
Bennato, con
Venditti e De Gregori, è visto con sospetto come parte di una nuova
“Santa Trinità di nuovi cantautori italiani”, il cui impegno politico
non pare più così adamantino, mentre invece appare evidente
l’impostazione commerciale dell’attività.
“Come i
rapanelli: rossi fuori, bianchi dentro” analizza invece, con la
stessa diffidenza, il successo del PCI nelle elezioni del 1975,
ritenendo appunto il partito sulla via della definitiva normalizzazione.
Sulla
scuola, continua il discorso già visto in altri numeri: si cerca di
invitare gli allievi monregalesi a non concentrarsi solo sui problemi
di costo dei libri e del servizio mensa, ma a mettere in discussione “i
rapporti autoritario-paternalistici allievo/maestro” tipici di buona
parte dei professori di Mondovì. Si riconosce quindi, con evidente
rammarico, una situazione scolastica in realtà tendenzialmente buona e
collaborativa nel monregalese, che inibisce la possibilità di una
“lotta di classe”.
Insomma, si percepisce un certo comune
tono di frustrazione per la crisi su vari piani della lotta: quella
politica, quella scolastica, quella musicale, tre poli centrali nella
cultura politica de “La tazza di tè” (e, in generale, di quegli anni).
Si giunge così all’ultimo numero, il 10,
nel febbraio-marzo 1976. La psichedelica copertina annuncia “Ultimo
numero” con un Olivia Oyl femminista a pugno chiuso, al centro di un
turbinio di immagini lisergiche. Ci si ripropone di continuare con
spettacoli live, in cooperazione con il circolo anarchico Pinelli di
Cuneo, con cui in precedenza non erano mancate polemiche e divergenze
di vedute. In questo senso, ha probabilmente funzione d’ispirazione
l’arrivo del Living Theatre a Cuneo, previsto per il febbraio 1975, e
di cui la rivista riferisce in ultima pagina.
In un
comunicato nella penultima pagina, invece, si riconosce che, se il
“Movimento” continua a crescere a livello nazionale (si va verso il
’77), la Tazza è “andata indietro”, passando dalla diffusione a stampa
a quella a ciclostile, che rappresenta innegabilmente un arretramento
poco convincente per i redattori della rivista.
Da qui la
decisione di chiudere, anzi, “ibernare” la Tazza di tè, per una
successiva rinascita: rinascita che avverrà, in certo senso, con
“Poesia nella strada”, la rivista che, a partire dal 1977 fino al
dicembre 1980, traghetta la contro-cultura monregalese negli anni
’80, pubblicata appunto da Edizioni Tazza di The, segno di una
continuità ricercata pur nel deciso cambio di passo.
Un
passaggio dall’impegno politico più stretto all’impegno culturale
rivendicato, sempre, come politico, con una produzione autonoma di
contenuti poetici di impronta sperimentale, produzione che sulla Tazza
di tè era assente.
Un’evoluzione, quella di “Poesia nella
strada”, che segna la strada della controcultura monregalese proseguita
in “Weltanschaaung”, dove alla poesia si affianca la narrativa e la
critica musicale (presente, del resto, già nelle origini della “Tazza
di tè”) e quindi in questo “Margutte”, che amplifica
ulteriormente la prospettiva, in una simile bipartizione tra produzione
letteraria e saggistica, ma con un raggio ancor più ampio.
“Una
tazza di tè”, in questo, si dimostra ancora distante non solo
temporalmente, ma anche come prospettiva adottata. La controcultura
come elemento di politica è assunto quale prospettiva, ma il giornale
non è ancora il mezzo principe per produrre tale controcultura, ma più
un mediatore, a quanto pare, che testimonia delle pulsioni
controculturali vive e attive nella scena di allora.
In
primis, la musica, su cui si focalizza la massima attenzione, e anche
in generale lo spettacolo, inteso come momento concreto, vivo, di
contatto (e non a caso, agli artisti si contesta la separazione rigida
performers/pubblico, quando praticata), opposto alla scrittura di un
giornale che, si pone come necessariamente “autoritaria”: la scissione
autore-lettore, nel testo scritto, è rigida intrinsecamente al medium.
Non
a caso, la rivista tenta di compensare con frequenti inviti all’invio
di opere, testi, immagini, contributi di qualsivoglia tipo, che però
non riescono mai a passare alla fase produttiva per le difficoltà
organizzative di una rivista così magmatica, alternativa e perciò
precaria. In alcuni editoriali, appare anche un accenno di autocritica
nel non aver saputo gestire questo aspetto, sia pure espresso con
ironia (“ci cospargiamo il capo di cenere…”).
E tuttavia il
rifiuto della necessaria organizzazione giornalistica appare evidente
nella voluta scoppiettante caoticità della rivista stessa, con la
testata in perenne trasmutazione, priva di qualsivoglia riferimento
agli autori dei testi, pochissimi riferimenti di numerazione e
temporali, che rendono talvolta anche difficoltoso, all’osservatore a
posteriori, contestualizzare precisamente lo svolgersi della
riflessione della rivista stessa.
La parte saggistica in
senso stretto si concentra sui temi tipici di quegli anni:
l’antifascismo, i rischi di golpe, le battaglie per la liberazione
sessuale e l’informazione sull’uso delle droghe, contro la repressione,
con interventi che cercano di bilanciare il piano nazionale e
internazionale con la necessaria azione locale. In teoria, apparirebbe
questa la parte politica in senso più stretto, rispetto alla quale la
parte “culturale” dovrebbe svolgere un ruolo quasi ancillare: ma appare
quella tutto sommato meno incisiva, anche se non priva di tentativi di
calare i temi astratti spesso evocati nella prassi concreta (il
“censimento” del neofascismo cuneese, la disamina dei libri di testo
delle scuole…).
Nella parte culturale, se la musica
spadroneggia, il teatro e lo spettacolo è visto come un riferimento
importante, anche se già minoritario nei riferimenti, mentre il cinema
ha poche menzioni, più casuali e distaccate, non so se per difficoltà
organizzative o altro. La letteratura, in teoria apprezzata come medium
in opposizione alla ovvia ostilità al mezzo televisivo come strumento
di massificazione (in rapida e tumultuosa ascesa), non è pressoché
presente come analisi saggistica, e i rari racconti che appaiono hanno
più la funzione di apologhi politici che di autonoma produzione
narrativa. Gli unici testi poetici citati sono, appunto, quelli di
celebri canzoni rock dell’epoca, italiane e inglesi.
Invece
la cultura fumettistica, di cui la controcultura si era riappropriata
con un “Linus” (1965), è abbondantemente saccheggiata in detournement
sagaci anche se spesso effettuati con un segno ingenuo, a commentare
più seriosi articoli saggistici, in un alleggerimento grafico caotico
ma spumeggiante. L’immaginario è quello che si può trovare sulle pagine
di Linus: I Peanuts, ovviamente, ma anche Mafalda, Il Mago Wiz, i Freak
Brothers di Sheldon, e più sporadici Crepax, Breccia, Pichard, ma anche
Asterix di Goscinny e Uderzo.
In parallelo, l’attenzione
alla cultura visiva va verso l’immaginario lisergico in voga in quegli
anni, con intuizioni visuali spesso di altissimo livello, di cui spesso
la rivista è debitrice a Gianni Bava, che ne cura l’impostazione
grafica. Anche qui, vari elementi sono fagocitati dalla cultura visuale
dell’epoca, ma a differenza del lavoro sul fumetto, più ruspante, la
soluzione grafica è solitamente brillante, efficace e spiazzante.
E
forse è questo patchwork visivo, tra psichedelia e fumetto, ad essere
l’eredità più persistente della Tazza di tè, anche tramite il prosieguo
del lavoro di Gianni Bava nel monregalese, nel gusto del
dialogo/contrasto tra testo e immagine. Una scelta che sarà proseguita
da “Poesia nella strada”, come abbiamo già detto, e di cui bisognerà ritornare a parlare, in una prossima puntata.
|