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Velvet
Il primo numero esce nell'ottobre del 1988 al costo di 4.000 lire / 68
pagine
Redazione: Ermanno Labianca, Pierluigi
Bella, Piero A. Corsini, Massimo Cotto, Marco De Dominicis, Maurizio
Favot, Davide Sapienza
Collaboratori: Vittorio Amodio, Paolo Ferrari, Marina
Petrillo, Valerio Corzani etc etc.
Revisione e porgetti speciali: Eddy Cilìa
Direttore responsabile: Maurizio Bianchini
Direttore Editoriale: Federico Guglielmi
Sommario:
Pag. 5: Editoriale
Pag. 6: What goes on (notizie)
Pag. 8: The future looks bright
Pag. 12: Leonard Cohen intervista di M. Cotto
Pag. 18: L'elogio della follia. Captain Beefheart, Thomas Pynchon, John
Candy di M. Bianchini e E. Cilìa
Pag. 27: Recensioni (33 rpm, All that jazz, Vinyl shots, 45 rpm, Lost
and found)
Pag. 44: Nico di Federico Guglielmi
Pag. 48: Brutti, sporchi ma non cattivi: Hairspray, Bagdad cafè, Patti
Rocks, High Hopes di M. Bianchini
Pag. 52: The Moffs di E. Cilìa
Pag. 54: Linton Kwesi Johnson di P. Ferrari
Pag. 56: Woodentops di P. Sarram
Pag. 60 The king of Luxembourg di M. De Dominicis
Pag. 62 R'n'R Babel di F. Guglielmi
Pag. 64: N.Y.C. Serenade di E. Murphy
Pag. 66: Cheap thrills di E. Cilìa
Dal n. 16 del gennaio 1990 la direzione e completamente nelle
mani del solo Guglielmi.
Gli
altri collaboratori erano Eddy Cilìa
(responsabile della revisione e dei progetti
speciali), Ermanno Labianca (coordinatore redazionale), Pierluigi Bella,
Massimo Cotto,
Marco De Dominicis, Vittorio Amodio, Riccardo Bonanni, Paolo Ferrari,
Roberto Fratini, Maurizio Lucenti, Marina Petrillo e Peter Sarram.
La
rivista concluse la sua prima fase di vita editoriale con il n. 26, del
novembre 1990.
La seconda, con Bianchini direttore unico e con una linea editoriale
lievemente diversa (cambia il sottotitolo: Bible of
fun & enlightenment), fu varata nel gennaio 1991 e si concluse,
con il n.10, nell'ottobre dello stesso anno.
Nella terza e ultima fase, dopo il numero 11 del novembre 1991,
"Velvet" modificò radicalmente la sua impostazione, divenendo una
rivista di sole recensioni (musicali e non) diretta da Maurizio Favot;
la chiusura definitiva avvenne con il n. 17 del giugno 1992.
ma tutta la storia l'ha raccontata dettagliatamente Federico Guglielmi qui
e io come d'abitudine riprendo e ripropongo di seguito senza però il corredo delle foto che completano il tutto.
" La breve, tormentata storia di Velvet" di F. Guglielmi
Il primo numero di Velvet uscì regolarmente, all’inizio-inizio di
ottobre, con una tiratura mostruosa (33.000 copie; così aveva suggerito
il distributore) e una copertina che all’epoca ci era parsa geniale ma
che, con il senno di poi, devo per forza definire “un errore”: sotto la
testata, solo un grande “1” circondato dagli strilli relativi agli
argomenti trattati e dai cognomi dei componenti dello staff. Perché i
nostri cognomi? Non per atteggiarsi, ma per far sapere da chi era fatto
il giornale a quanti seguivano il piccolo mondo della critica musicale.
Perché non una foto di qualche band o solista? Semplice (e sciocco):
non volevamo in alcun modo “caratterizzare” la rivista con un artista
“classico” o di attualità, e quindi optammo per qualcosa di neutrale,
che costringesse il possibile acquirente – all’epoca, prima che
Internet sconvolgesse il mondo dell’informazione, la gente andava nelle
frequentatissime edicole, si informava su cosa era uscito, sfogliava,
leggiucchiava – ad approfondire quel nuovo mensile. Concettualmente
giustissimo, ma in realtà fu una madornale fesseria; nelle nostre
menti, le pubblicazioni musicali “alternative” – Il Mucchio,
Rockerilla, L’ultimo buscadero… – erano acquistate solo da persone
attentissime, interessate ai contenuti e non al “contorno”. A breve,
sulla nostra pelle, scoprimmo invece l’esistenza di un’alta quota di
fruitori – distratti, superficiali, casuali – che subiva il fascino
delle copertine dal forte impatto estetico e non notava quelle meno
appariscenti; inoltre, pagammo lo scotto dell’essere ancora sconosciuti
e di non poterci permettere una costosa campagna promozionale, con il
risultato che una parte delle copie stampate rimase in pratica nei
magazzini del distributore.
E il nostro principale concorrente al quale volevamo fare le scarpe, il
Mucchio? A ottobre uscì con una buona settimana di ritardo e con uno
staff in larghissima parte diverso, ma con un enorme vantaggio (a noi
noto) che speravamo sarebbe stato meno determinante: un allegato di
cinquantasei pagine scritto (in precedenza) da uno dei “nostri”,
Massimo Cotto, e dedicato a uno dei gruppi più popolari dell’epoca, gli
U2. La presenza del fascicolo extra comportava naturalmente la
cellophanatura e il n.129 del Mucchio fu acquistato senza poterci
guardare “dentro” e, quindi, senza possibilità di accorgersi
dell’avvenuta rivoluzione. Ragionandoci a freddo, quest’ultimo aspetto
non ebbe grande influenza; apprendemmo infatti mese dopo mese di come
molti lettori non si fossero neppure accorti che i tre quarti dei
collaboratori non c’erano più. Fu una lezione durissima e molto
importante per il prosieguo della mia attività, non solo in relazione a
Velvet: capii, insomma, che a quella dei veri aficionados corrispondeva
una schiera almeno altrettanto fitta di, come dire?, “svagati”, che non
si curavano delle firme in calce agli articoli né si preoccupavano di
questioni (secondo noi) vitali come, ad esempio, la coerenza con ciò
che si era affermato in passato o la giustificazione dell’eventuale,
sopraggiunta incoerenza.
Il n.1 vendette quasi 12.000 copie: in assoluto non male, ma troppo
poche rispetto all’elevata tiratura e alle nostre aspettative/speranze.
Il Mucchio dello stesso mese ebbe invece – comprensibilmente – un
successo pazzesco, cosa che rallentò l’auspicato (da noi) calo dei
lettori; anzi, il supplemento sugli U2 fece molto probabilmente
scoprire la rivista a un pubblico vergine, che nulla sapeva del Mucchio
“di prima”. Non potemmo che prendere atto della situazione –
immediatamente chiara: Parrini, il distributore, forniva attendibili
proiezioni di vendita – e andare avanti per la nostra strada, con la
consapevolezza che con il Mucchio avremmo dovuto fare i conti a lungo,
se non per sempre. Però, ecco, alla fine andava bene così; il nostro
piano, per il quale ci sentivamo anche un minimo in colpa, era fallito,
ma alla fine non era morto nessuno, noi avevamo la nostra rivista e
Stèfani aveva la sua. Meglio rimboccarsi le maniche e procedere
puntando alla qualità, soprattutto senza faide; non a caso, nel nostro
editoriale di presentazione non si parlava direttamente o
indirettamente del Mucchio. Accadde però che nel numero di novembre,
una volta assorbito lo shock, Stèfani pubblicò un editoriale un po’
stronzo; non dico che avere il dente avvelenato non fosse legittimo, ma
un simile travisamento dei fatti e delle motivazioni che avevano
causato lo scisma, unito ai toni ipocriti, ci fece cambiare idea. La
colonnina del Mucchio, scritta di sicuro da Stèfani e poi tradotta in
italiano da qualcun altro, si intitolava “Glasnost”, termine russo
molto in voga in quel periodo pre-caduta del Muro e di tutto il resto,
che vuol dire “trasparenza”. Trasparenza un cazzo, scusate il
francesismo; a dicembre, nel n.3, ci toccò così rispondere con un’altra
colonnina che (ovviamente) aveva per titolo una seconda parola russa ai
tempi gettonatissima, “Perestrojka” (“ricostruzione”,
“ristrutturazione”), nella quale venivano smentite con considerazioni
inattaccabili tutte le menzogne.
A dicembre (n.131), nella pagina della posta del Mucchio, apparve poi
una vignetta presa da “Tex” e diretta a noi, alla quale avremmo
risposto ironicamente a febbraio (n.5) con un’altra sempre da “Tex” e
con il testo modificato ad hoc (alla Bonelli, per fortuna, non se ne
accorsero, o decisero di lasciar correre).
La storia di “Velvet” fu piuttosto travagliata. Le vendite non erano
poi così pessime (attorno alle diecimila copie: oggi si ucciderebbe,
per cifre simili), ma le spese erano ingenti e la pubblicità esigua,
cosa che erodeva il nostro capitale sociale. Nel frattempo Maurizio
Bianchini, che si era di fatto quasi tirato fuori perché coinvolto in
altri lavori più di prestigio e remunerativi, aveva voluto cedere parte
delle sue quote, e nella ESSEDIEMME erano subentrati Ermanno Labianca e
uno dei proprietari del negozio di dischi Disfunzioni Musicali, Gianni
Gabrieli. Nel n.16 del gennaio 1990, contestualmente a qualche modifica
nella gestione dei contenuti (sempre però lasciando al centro del
giornale le recensioni, in un inserto di sedici pagine di carta diversa
eventualmente estraibile e rilegabile: una grande idea di Eddy), venne
inoltre ufficializzato nel tamburino il ruolo di direttore unico che di
fatto ricoprivo dall’inizio. Il 1990 fu caratterizzato da una certa
vivacità, con i numeri di febbraio e marzo in parte dedicati ai “cento
dischi degli anni ‘80” (il lungo articolo che funse da base per il
nostro primo e unico supplemento uscito a giugno, “Velvet Gallery”, con
i nostri 333 album imperdibili del rock dai ’50 agli ’80) e una bella
serie di articoli e copertine. La riduzione della tiratura richiesta
dal distributore e da noi avallata per contenere le spese portò però –
quasi inevitabile – al calo delle vendite, fissatesi tra le ottomila e
le novemila copie. In base ai miei calcoli, il capitale residuo e gli
introiti che intanto sarebbero arrivati avrebbero coperto tutti i
debiti strumentali (fotocomposizione, tipografia, staff) solo fino al
numero di novembre, e dunque comunicai ai soci che per andare avanti
sarebbe stato indispensabile immettere altro denaro, perché essendo
amministratore non volevo assolutamente rischiare il fallimento. Quasi
nessuno poteva però permettersi un ulteriore esborso e così non ci fu
altra soluzione che stabilire la chiusura con il n.26, del novembre
1990, con i Mano Negra in copertina. Non la annunciammo all’interno del
giornale perché si sperava in una specie di miracolo: se avessimo
scritto “ultimo numero”, una eventuale ripartenza sarebbe stata
penalizzata, perché i lettori non avrebbero mai cercato nelle edicole
il n.27.
Il “miracolo” in qualche modo avvenne, ma per me fu un’altra
cocentissima delusione, questa volta umana. Quando ormai era ovvio che
non avremmo potuto approntare in tempo utile il numero di dicembre,
Bianchini se ne uscì con la rivelazione che da vari mesi stava
trattando la possibile cessione di Velvet a non bene identificati
investitori legati al Partito Socialista, interessato – fu detto – ad
avere una rivista per giovani nella scuderia dei periodici “amici”. Il
solo problema era che questi investitori, che avrebbero operato una
campagna di rilancio ottenendo inserzioni e aiuti di vario genere da
una importante società di raccolta della pubblicità, volevano acquisire
le quote della ESSEDIEMME senza sborsare una lira, promettendo in
cambio di mantenere nella rivista tutti i collaboratori e gli ex soci.
Mi trovai così in una brutta posizione: ero incazzato nero con
Bianchini, che per essere il comandante della nuova gestione non mi
aveva reso partecipe a tempo debito delle sue manovre, impedendo così
la trattativa certo più favorevole che sarebbe stata possibile con la
rivista ancora “aperta”; Eddy, Ermanno e Gianni erano invece incazzati
con me perché, avendo chiarito subito che non avrei ceduto gratis le
mie quote, in pratica sarei stato “il boia” di Velvet. Forte della mia
carica di amministratore, oltre che di possessore del 40% della
società, affrontai così un breve negoziato dal quale uscii in parte
vincitore: lasciai l’amministrazione, ovvio, ma mantenni il 10% della
ESSEDIEMME, ottenendo dieci milioni di lire per la cessione del
rimanente 30%.
Il resto della vita editoriale di Velvet fu decisamente un gran casino.
Gli investitori mantennero le promesse (ci fu persino una campagna
promozionale con enormi “manifesti” sulle fiancate degli autobus di
Roma, Milano e altre città), Bianchini rimase direttore responsabile ma
smise di fatto di dirigere dopo un paio di numeri, io ebbi una
qualifica equivalente a quella di redattore e mi limitai a scrivere di
quello che mi veniva richiesto o che proponevo. La cura del giornale
era nelle mani di Eddy, Marco De Dominicis e Roberto Giannotti, un
bravo “organizzatore” suggerito dagli investitori, e gli otto numeri
realizzati vennero fuori proprio bene. Non ci fu purtroppo l’auspicato
aumento di vendite e così nel novembre del 1991 Velvet cambiò ancora,
con uno stravagante progetto – seguito sempre dal triumvirato di cui
sopra – dal quale mi dissociai; uscì un unico numero (senza di me) con
un’assurda copertina nella quale una tizia pressoché nuda mangiava una
merendina. A dicembre arrivò l’ennesima e conclusiva metamorfosi. Il
sottotitolo fu trasformato in “Il ReCensore” e la rivista, sotto la
direzione di Maurizio Favot, venne dedicata esclusivamente a recensioni
(dischi, film, concerti, libri, fumetti, altro); ne furono pubblicati
in tutto sei numeri fino al maggio del 1992 (si saltò gennaio,
probabilmente perché dicembre era uscito molto in ritardo a causa della
ristrutturazione) e poi l’agonia terminò con la definitiva dipartita.
L’ultimo mio pezzo apparve sul numero di aprile perché avevo già
cominciato a collaborare con una nuova rivista fondata dall’amico
Claudio Sorge, Rumore
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