
|
 |
Dai beat a i punk. 10 anni
di controcultura a
Milano 1967-1977
di Nicola Del Corno tratto dalla rivista Clionet
Nel presentare la voluminosa raccolta – si tratta di un libro di
900 pagine – di materiale inerente a vent’anni (da metà degli anni ’60
a metà degli ’80) di storia delle controculture nel nostro paese,
Ignazio Maria Gallino ha giustamente notato come «dopo questa enorme e
profonda esperienza collettiva, niente può essere più considerato
uguale a prima». Beat, hippies, situazionisti, indiani metropolitani,
“renudisti”, punk sono infatti stati protagonisti di una «lunga
primavera» a suo modo incisiva sulla società italiana che merita nuove
e approfondite riflessioni, da un punto di vista storiografico, per
recuperare ulteriori suggestioni e rimeditare su contenuti e
metodologie, spesso sovversive, dell’underground italiano[1]. Ebbe a
notare Primo Moroni nel 1984 come la componente della cultura
underground rimase «una costante» nei movimenti giovanili degli anni
Settanta; tale controcultura anche quando andò ad incontrarsi
inevitabilmente con la “cultura” dei movimenti politici, maggiormente
strutturati da un punto di vista ideologico, riuscì infatti a mantenere
sempre «una sua sorprendente specificità»[2]. In questo saggio, che non
ha certo pretese di esaustività, ci si propone allora di tratteggiare
per sommi capi la storia di un decennio di controcultura milanese
tramite la segnalazione di molteplici esperienze di vario spessore e
diffusione – peraltro tutte meritevoli di ulteriori studi e
approfondimenti – con una particolare attenzione a vie e piazze per
creare una mappatura dei luoghi d’incontro controculturale nella
metropoli milanese[3]. Ne è emerso così un primo quadro d’assieme del
panorama underground di Milano, la città italiana dove furono
probabilmente più incisivi quantitativamente e qualitativamente tali
movimenti, nella convinzione che ci sia un saldo filo rosso che lega i
beat ai punk, passando attraverso l’esperienza di “Re Nudo”, dei
Circoli del proletariato giovanile e altre manifestazioni ancora.
1. I beat e il '68
All’alba del 12 giugno 1967 la polizia sgomberò il campeggio beat sorto
in via Ripamonti, accanto al fiumicciattolo Vettabbia; il blitz delle
forze dell’ordine era stato da tempo richiesto da parte dell’opinione
pubblica moderata milanese, “Corriere della sera” in testa, che mal
tollerava l’instaurarsi di una «New Barbonia city» – per riprendere un
articolo del quotidiano milanese[4] – alle porte della metropoli,
campeggio presto divenuto – secondo questa volta le parole del prefetto
– «ricettacolo di elementi oziosi e vagabondi»[5]. Poco servì il fatto
che i beat milanesi – «capelloni» e «sbarbine» secondo una certa
stampa[6] – avessero regolarmente affittato quel terreno per un periodo
che andava dal 1° maggio al 31 agosto ’67; l’azione della polizia fu
inesorabile, quanto spettacolare: 79 arresti, circa 200 fogli di via e
soprattutto per disinfestare la zona furono usati, secondo le cronache
del tempo, 500 litri di DDT. Con lo sgombero dell’«inverecondo bivacco»
(per riprendere un sottotitolo sempre del “Corriere”)[7], si può dire
che terminò anche l’esperienza beat milanese[8]. Inoltre l’uscita di lì
a poco del 5° numero (ma in realtà il 7° dato che i primi due furono il
numero 0 e il 00) della rivista “Mondo beat” per l’editore Feltrinelli
determinò una spaccatura all’interno del movimento, con alcuni
“scissionisti” che risposero a tale iniziativa, considerata poco
underground e molto mainstream, con la pubblicazione di un foglio
alternativo (che cambiava nome ogni volta per sfuggire alle normative
sulla stampa e all’obbligo del direttore responsabile usando la dizione
«numero zero in attesa di autorizzazione»)[9] denominato in successione
“Urlo beat”, “Grido beat”, “Urlo Grido Beat”, “Parentesi beat”. Con il
’68 alle porte, iniziò un vero proprio esodo all’interno del movimento
beat, con alcuni dei suoi esponenti che partirono per l’Oriente
(soprattutto India e Afghanistan)[10], mentre altri preferirono
allontanarsi da Milano per dar vita a comuni in campagna, e
particolarmente nota fu quella di Ovada[11].
I primi beat, di estrazione sociale per lo più proletaria, erano
comparsi a Milano alla metà degli anni ’60[12], ritrovandosi dalle
parti di piazzale Brescia per muovere successivamente verso il centro,
e fissando il loro punto d’incontro dapprima presso la metropolitana di
Cordusio e poi in piazza Duomo sotto la statua del “pirla a cavallo”,
così come veniva definito il monumento a Vittorio Emanuele II nello
slang beat. Nel gennaio del ’67 i beat affittarono uno scantinato in
via Vicenza – presto denominato secondo suggestioni estere “la Cava” –
che divenne da subito il punto di riferimento del movimento italiano. I
beat si legarono ai cosiddetti provos milanesi – i situazionisti
dell’“Onda verde”[13] nelle cui fila figura di riferimento è Andrea
Valcarenghi, futuro fondatore di “Re Nudo” – dando vita assieme ad una
serie di manifestazioni pacifiche; particolarmente riuscite risultarono
quella antimilitarista del 4 novembre ’66, quella del 27 novembre ’66
contro i fogli di via, e quella del 6 maggio ’67 durante la quale
vennero trascinate per il centro di Milano una serie di bare bianche e
lunghe catene per protestare con la guerra in Vietnam. Nelle
manifestazioni beat e provos s’intrecciavano tematiche esistenziali
provenienti dal modello americano degli hippies a concrete battaglie
politiche a favore di maggiori diritti civili; l’obiettivo non era
certamente quello, per così dire, di prendere il potere, quanto quello
di combattere con le armi underground della provocazione e della non
violenza la società tradizionale[14].
Il movimento beat milanese diede vita ad un’interessante proliferazione
di testate underground, fra le quali si distinsero, oltre al già citato
“Mondo Beat”, “Pianeta Fresco” e “S”. Fra i 3 giornali, “Mondo beat” fu
il foglio più politico[15]; nelle sue pagine si ritrovano alcuni temi
portanti delle future proteste sessantottine e degli anni seguenti
quali il pacifismo, l’antimilitarismo, l’obiezione di coscienza, il
libero amore, il diritto al divorzio, all’aborto, alla pillola in un
contesto di generale critica alla politica tradizionale – anche quella
dei partiti di sinistra – ed una esaltazione della vita in comune per
superare definitivamente gli stereotipi della famiglia, della società,
della buona educazione tradizionalmente intesi[16]. Inoltre inizia già
ad emergere quella passione per l’Oriente che influenzerà le scelte
esistenziali di una parte non trascurabile della gioventù del decennio
successivo. “Pianeta fresco” – nato per iniziativa della ‘madrina’ del
beat italiano, ossia Fernanda Pivano (direttrice «responsabile» della
rivista, mentre direttore «irresponsabile» risultava Allen Ginsberg), e
il cui primo numero uscì nel dicembre del ’67 – si distinse da “Mondo
beat” per un tono sicuramente più intellettuale affrontando tematiche
proprie dell’underground americano quali la possibilità e la libertà di
poter espandere la propria conoscenza tramite l’uso di sostante
psicoattive, e un più esplicito misticismo attento ovviamente a
religioni e filosofie orientali. Da “Pianeta fresco” sparivano quei
concreti problemi esistenziali presenti invece su “Mondo beat”, quali
la fuga da casa, la repressione da parte del sistema, il bisogno di
socializzazioni alternative, mentre si parlava in termini teorici di
de-condizionamento culturale, di nuove visioni apprese tramite viaggi
allucinogeni. Si abbandonava la materialità della strada dove si era
formato il movimento beat, per concentrarsi su happening e readings
dove si venne a creare, sia pure in forma elitaria, una originale
intellettualità underground[17]. In maniera simile, anche la
situazionista “S”, il cui primo numero vide la luce nell’ottobre 1967,
fece fare un salto di qualità da un punto di vista culturale al
movimento underground non solo milanese, visto che fu diffuso anche in
altre città italiane; nelle sue pagine, ricercate anche da un punto di
vista grafico, vi era sì una ripresa di alcune tematiche protestatarie
già comparse su “Mondo beat”, ma ora presentate secondo una prospettiva
sicuramente meno elementarmente schematica; tale era ad esempio
l’appello ad un’opera di deculturizzazione per difendersi dalla Cultura
imposta dal sistema, tramite giochi di parole, ambiguità fra accaduto e
immaginato, détournement di passata consuetudine dadaista[18].
Sempre per quello che riguarda l’attenzione della scena underground
milanese all’uso di sostanze stupefacenti per finalità meditative e
artistiche, va ricordato nell’ottobre del 1968 la fondazione del SIMA
(acronimo di Servizi Istituto Mass-Media Art) in via Soresina 5 per
iniziativa di Ignazio Maria Gallino e Guido Blumir, sull’esempio
dell’esperienza inglese di Release[19], per fornire non solo una difesa
medico-legale nei confronti di drogati o omosessuali in difficoltà con
la legge o la società, ma per progettare anche un laboratorio di
produzione psichedelica rivolto a varie arti, particolarmente attivo
nei primi anni Settanta. Progetti e finalità del SIMA vengono così
ribaditi sul numero zero della rivista “Get Ready” nel 1972:
Nuove dimensioni, espressioni favolose. Musica per viaggiare, finzioni
per ritrovare la realtà, segni e colori come allusione di un altrove
dove non a tutti è possibile sparire, amplificazione della percezione,
dilatazione, sinestetiche, cinema. Chi vuole trovare le chiavi per
alleggerire il cemento armato della cultura europea? E realizzare in
modo stroboscopico un programma che comprenderebbe mostre, sequenze
musicali, teatro, cinema visionario[20].
Legato all’esperienza del SIMA fu anche la creazione dello IAP
(International Alternative Press) in via Anfiteatro 9 allo scopo di
alimentare un circuito per la diffusione e la distribuzione della
stampa underground altrimenti destinata a scarsa, se non nulla,
visibilità.
Una certa continuità fra beat e contestazione sessantottesca è stata
più volte messo in luce, ad esempio da Alberto De Bernardi quando
scrive che «con i capelloni siamo alle origini del movimento», notando
come punti di contatto soprattutto la critica alla società dei consumi
e l’internazionalismo pacifista[21], o da Peppino Ortoleva quando
afferma che, a livello americano ed europeo, «è ovvia la continuità fra
linguaggio e stili di vita “underground” con atteggiamenti ribellistici
del movimento del ’68»[22]. L’underground beat servì sicuramente a
creare quell’humus dove crebbe fertile il movimento di protesta
studentesco; se sono evidenti queste continuità – nell’abbigliamento,
nella scelta dello stile di vita, nella critica alla società
consumistica – non sono meno evidenti le rotture[23]: il ’68 fu un
movimento di massa e politicizzato, che non disdegnava la violenza –
sia pure spesso in chiave difensiva – e non più una ridotta “banda di
capelloni”, quale era il movimento beat dedito alla semplice pratica
dimostrativa della provocazione e dello scandalo, tenendosi sempre
lontano da qualsiasi pratica di violenza[24]. Concretamente si può
ricordare che se il terreno di via Ripamonti fu regolarmente affittato
dai beat, l’anno successivo, nel novembre del ’68, l’ex Hotel Commercio
di piazza Fontana, in pieno centro, appena dietro il Duomo, fu occupato
da studenti che vi insediarono la Casa dello studente e del lavoratore,
primo esempio di occupazioni di luoghi abbandonati, o comunque
disabitati, che caratterizzeranno gli anni Settanta[25]. Questo
equilibrio fra continuità e rottura nel passaggio tra il movimento
underground e quello sessantottino fu così illustrato da uno dei
protagonisti del ’68 europeo, Rudy Dutschke che lo paragonò a quello
fra filosofia classica tedesca e marxismo: come Marx era partito da
quella filosofia per costituire il suo paradigma, così il movimento
studentesco si era abbeverato alle fonti dell’underground, pur
superandolo, per definire meglio temi e termini della sua protesta[26].
Ma che rimanesse anche una certa diffidenza fra i due mondi è stato ben
testimoniato da Silla Ferrandini nel suo romanzo autobiografico sulla
beat generation milanese I fiori chiari:
anche se avevamo alcune idee in comune la distanza era abissale, loro
[i sessantottini] davano del borghese a noi [i beat] perché dicevano
che non avevamo una vera ideologia politica, e noi davamo del borghese
a loro perché di rimando dicevamo che volevano instaurare un regime
altrettanto autoritario e altrettanto repressivo del capitalista[27].
2. "Re Nudo" e Macondo
Protagonista del microcosmo beat-provos milanese fu sicuramente Andrea
Valcarenghi, che dopo alcuni vicissitudini carcerarie, fu il fondatore
di “Re Nudo”, l’unico giornale underground che ebbe un seguito e una
durata significativa che coprì l’intero decennio degli anni ’70[28].
Secondo Valcarenghi, la cultura underground si diffuse in Italia nei
primi anni ’70 come risposta all’incapacità dei movimenti rivoluzionari
più politicizzati di «dare una risposta al problema del superamento
della scissione fra attività politica e vita privata»; di fronte ad un
«problema esistenziale […] sentitissimo» dai giovani la risposta non
poteva infatti limitarsi a quel «clima operaistico e militaresco»
imposto dai vari gruppuscoli della cosiddetta sinistra
extra-parlamentare[29]. Lo scopo di “Re Nudo”, soprattutto nei primi
anni, era quello di non disperdere dopo il biennio 68-69, che aveva
visto il sorgere di nuovi protagonisti sulla scena politica antisistema
(ossia studenti e operai), il patrimonio ideale e culturale del
movimento underground, che come abbiamo visto, anche in Italia e
soprattutto a Milano aveva cercato di raggiungere una sua visibilità.
Si tentò in pratica di evitare che fosse del tutto emarginata dal
variegato movimento di protesta di quegli anni l’area libertaria,
situazionista, trasgressiva, ossia quella sicuramente meno ideologica.
Da qui le difficoltà che sempre ebbero i “renudisti” ad interloquire
non solo con i partiti della sinistra della storica, ma anche con il
Movimento studentesco, e altre forze della cosiddetta sinistra
extraparlamentare, ormai in piena deriva verticistica, spesso dogmatica
e comunque settaria. Preceduto da una particolarissima “campagna
pubblicitaria” tesa a spiazzare l’opinione pubblica – i muri della
città furono riempiti di scritte riportanti il nome della futura
testata seguito da un punto interrogativo o da quello esclamativo – il
numero zero di “Re nudo” vide ufficialmente la luce nel novembre del
1970, con una tiratura di diecimila copie distribuite principalmente a
mano e andate completamente esaurite in poco tempo.
Se si sfogliano i primi numeri della rivista, colpiscono i frequenti
riferimenti all’underground americano: Timothy Leary (con 2 articoli
nel numero 0)[30], Aldous Huxley[31], William Burroughs[32], Allen
Ginsberg[33], Angela Davis[34], Kate Millet[35], John Sinclair[36] e
Jerry Rubin[37] e la loro “Convenzione rivoluzionaria”[38], i
Weathermen Underground[39], le Black Panthers e le White Panthers[40],
i portoricani Young Lords[41] sono oggetto di approfondimenti sulle
pagine del mensile a testimonianza di quale fossero i primi punti di
riferimento della redazione, d’altronde questo interesse era stato ben
esplicitato nell’editoriale del primo numero allorché si avvertiva che
un «aspetto centrale» di “Re Nudo” sarebbe stato «l’informazione
dettagliata e continua dei gruppi rivoluzionari stranieri, specialmente
americani»[42]. Accanto all’interesse per il mondo protestatario
americano, non mancarono sulla rivista articoli dedicati a dar voce e
spazio a tutte le lotte, soprattutto a quelle considerate ancora
marginali, riguardanti il nostro paese; particolare attenzione fu
dedicata alla condizione delle carceri – soprattutto tramite la
pubblicazione di scritti e poesie del “bandito comunista”, allora
detenuto a San Vittore, Sante Notarnicola[43] – e inoltre al mondo
delle tossicodipendenze, ai nascenti movimenti dell’antipsichiatria,
omosessuale, femminista. Come fu scritto nel già citato editoriale del
primo numero del dicembre 1970: «caratteristica fondamentale per un
giornale underground italiano deve essere la denuncia organica delle
istituzioni repressive dello stato: fabbrica, scuola, istituti
psichiatrici, carceri»[44]. Coerentemente a questo programma, nel
numero 4 di “Re Nudo” dell’aprile del 1971 furono pubblicati i primi 6
comunicati delle Brigate Rosse, che cominciavano allora le loro prime
azioni nelle fabbriche lombarde: pur nutrendo delle «riserve nei loro
confronti» – si legge nelle righe di presentazione – la redazione di
“Re Nudo” considerava i brigatisti come dei «compagni», anche loro in
lotta contro le strutture repressive delle istituzioni statali[45]. Da
un questionario allegato alla rivista qualche anno dopo, nell’ottobre
’76, emergeva che politicamente i giovani lettori di “Re Nudo” si
sentivano vicini alle battaglie del Partito radicale, e in misura
minore a Lotta continua e all’anarchismo[46].
Nel settembre del 1973 si tenne a Milano, organizzato da "Re Nudo", un
congresso, il cui titolo Oltre l’underground già mostrava le intenzioni
degli organizzatori di superare una pratica di lotta minoritaria,
avanguardistica, per divenire vera e propria forza controculturale in
grado di saper incidere, con maggiore determinazione politica, nelle
dinamiche del movimento[47]. E così, per riprendere l’icastica immagine
del convegno, coniugando underground e politica, a Mao sarebbero
cresciuti i capelli lunghi, ossia per riprendere le parole dello stesso
Valcarenghi «oggi, all’ordine del giorno, abbiamo l’obiettivo
dell’integrazione delle tematiche del movement con la lotta di classe
sviluppata dalla nuova sinistra e con le battaglie per i diritti
civili. Questa mediazione, questo processo in atto, il metodo e il
terreno in cui ci muoviamo, si chiama controcultura»[48]. Per questi
motivi, uscì come supplemento a “Re Nudo” il giornale delle "Pantere
Bianche" – il nome era mutuato dalla coeva esperienza americana delle
White Phanters di Sinclair – la cui volontà politica, esplicitata in un
articolo già comparso nel febbraio 1972, era quella di attuare «una
pratica sociale che andasse al di là di quella finora praticata ai
concerti di musica rock»[49], pertanto – come ribadiva Valcarenghi –
con le Pantere Bianche «l’underground serri il pugno nel saluto
comunista»[50].
La storia di "Re Nudo" fu caratterizzata anche da due scissioni
all’interno della redazione; la prima fu già del giugno 1971 e fu
portata avanti da Gianni Emilio Simonetti e Guido Vivi, ossia le anime
più neo-situazioniste del giornale – in seguito autori di pubblicazioni
importanti per l’underground milanese come “Hit”, “Robinudd”, e
soprattutto …Ma l’amor mio non muore[51] – che imputavano a
Valcarenghi, dalle pagine del numero unico di “Re Nudo colpo di mano”,
una sterile e timida attitudine, quasi riformistica, nell’affrontare i
diversi problemi posti dalla realtà, quando era necessaria un’azione
rivoluzionaria ad ampio spettro ben più incisiva; per usare le stesse
parole degli “scissionisti”: «la lotta per l’emancipazione non può
essere delegata a nessuno, ma deve essere gestita in prima persona, in
maniera totale, a tutti i livelli, rompendo definitivamente con la
logica della teoria e della pratica separate, riunificandole in un
processo unitario inscindibile», e qualche riga sotto, per ribadire la
necessità di un’azione ben più radicale, rispetto alla linea finora
adottata dalla rivista, si continuava:
Per quanto riguarda gli individui ai quali abbiamo sottratto il
controllo del giornale, il loro ritardo teorico e la miseria della loro
pratica, la loro incapacità di vivere alla velocità di radicalizzazione
degli avvenimenti, hanno reso necessario che ci assumessimo il compito
dell’esecuzione materiale del loro spossessamento per permettere al
proletariato di riappropriarsi della sua teoria rivoluzionaria[52].
Sul numero successivo, ripreso pieno possesso della rivista anche da un
punto di vista legale (pur se si ammetteva una «grande amarezza»
nell’essersi rivolti alla «giustizia borghese per difendere la testata
da chi, piccola minoranza militarizzata, voleva appropriarsene»), la
redazione di “Re Nudo” rispondeva perentoriamente, accusando
soprattutto Simonetti, di avere una «costituzione caratteriale
fascista», cosa che lo aveva portato ad attuare un vero e proprio golpe
– «i golpisti» è termine che ricorre nella risposta – per imporre una
nuova linea editoriale tesa, nella spasmodica ricerca di una nuova
«avanguardia rivoluzionaria», a snaturare le motivazioni per cui era
nato “Re Nudo” con l’accantonamento dell’anima beat e studentesca
“sessantottina”, caratteristica invece del giornale[53].
Un’altra “scissione” – sicuramente meno traumatica – fu quella messa in
atto da alcuni “renudisti” romani, i quali al contrario, rimasti ancora
legati a ideali underground di matrice mistico-hippie della fine degli
anni Sessanta, non avevano condiviso il progressivo espandersi su “Re
Nudo” di tematiche rivoluzionarie, dichiaratamente politiche: «perché
non vogliamo controgiornali rossi ma stampa alternativa […] perché
pensiamo che la risata sia un’arma affilata da usare per intero,
perché non vogliamo nel nostro futuro sclerotiche dittature
proletarie ma il tempo delle libere tribù dai mille colori»[54]. La
risposta di Valcarenghi fu contenuta in articolo intitolato
significativamente Senza fucile, niente rivoluzione per ribadire la
politicizzazione in senso classista del giornale: «anche noi vogliamo
le tribù dai mille colori ma vogliamo che la tribù comprenda tutta la
società e perché questo succeda si deve abbattere lo stato» e pertanto,
concludeva perentoriamente Valcarenghi, «alla lotta di classe non si
può sfuggire se veramente si vuole fare la rivoluzione», riaffermando
in questo modo «la scelta attuale di porci in rapporto dialettico con
quei gruppi e quegli organismi della sinistra che stimolati dalle
tematiche della controcultura e dell’underground hanno iniziato un
discorso politico-culturale di tipo nuovo»[55]. Sulle differenze fra
Milano e Roma, relative al movimento underground, si può fare
riferimento ad una distinzione proposta da Francesco Ciaponi, che
segnala come il movimento milanese andasse via via sempre più
politicizzandosi rispetto a quello romano rimasto più sfrontatamente
hippie e psichedelico[56].
Dall’intenzione più volte esplicitata da “Re Nudo” di creare spazi di
socialità al di fuori di quelli istituzionali, che fossero in grado di
aggregare i giovani secondo modelli provenienti soprattutto dalle
esperienze underground americane, nacquero i grandi raduni pop, che a
partire da quello milanese del 1974 prenderanno la denominazione di
“Feste del proletariato giovanile”[57]. Prescindendo dal piccolo
happening musicale underground, tenutosi per pochi intimi a
Lacchiarella nel luglio 1971 (ossia 4 anni dopo il campeggio beat di
via Ripamonti), il vero e proprio primo pop festival di “Re Nudo” si
tenne a Ballabio (in provincia di Lecco) in due giorni nel settembre
del 1971 radunando circa 10.000 giovani, e suonarono fra gli altri i
cantautori Pino Masi e Claudio Rocchi, e i gruppi Come le foglie e
Garybaldi. L’anno successivo, nel giugno 1972 e su 3 giorni, si tenne a
Zerbo (in provincia di Pavia) con il doppio quasi delle presenze; sono
ancora festival pre-politici, dove si sente musica, si consumano droghe
leggere, si fa meditazione zen, si pratica il nudismo, e così via. Per
quello che riguarda la musica vi è da segnalare a Zerbo il concerto del
giovane Eugenio Finardi e di Donatella Bardi.
A partire dal terzo festival, tenuto su 3 giorni presso le Alpi del
Vicerè in provincia di Como nel giugno 1973, con un numero di presenze
limitato da problemi organizzativi, si intende superare la mera
dimensione artistico-aggregativa del festival, intesa come esibizioni
di cantanti e band in un contesto di festa giovanile (dal punto di
vista musicale vanno ricordati soprattutto i concerti di Franco
Battiato e degli inglesi Atomic Rooster), per imprimere al raduno anche
una marcata caratura politica di chiara matrice controculturale. Dal
successivo, quello del ’74, i festival vengono tenuti a Milano al Parco
Lambro, prendendo la denominazione – come si è detto – di “Feste del
proletariato giovanile”, e caratterizzandosi sempre di più per la
politicizzazione dell’evento e per un numero sempre maggiore di
presenze, nonché per un cast di musicisti di primissimo livello: oltre
a coloro che avevano già suonato ai primi festival (Rocchi, Finardi,
Battiato) si esibiranno nelle edizioni milanesi, solo per citare i più
noti, il jazzista americano Don Cherry, gli Area, la Pfm, Napoli
Centrale, Giorgio Gaber, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Edoardo
Bennato, Antonello Venditti, Pino Daniele, Angelo Branduardi, Alberto
Camerini, Gianfranco Manfredi, Ricky Gianco. A questo proposito
decisivo – secondo Bertante «catartico»[58] – per il movimento
underground fu l’ultimo, quello famoso del giugno 1976. Scontri, anche
violenti, all’interno delle varie anime del movimento o con la polizia;
l’emergere di una rabbiosa volontà giovanile di contestare più
attivamente il sistema, che non poteva più essere saziata dalla
riflessività underground di “Re Nudo” e che venne presto intercettata
dall’autonomia; la presenza complessiva di più di 120.000 persone,
decisamente troppe per la tenuta stessa dell’organizzazione, causarono
il fallimento di questa esperienza che segnò un importante spartiacque
anche sulla futura incisività di “Re Nudo” presso il movimento di
contestazione. Gli anni successivi, nel 1977 e nel 1978, i festival si
tennero in tono minore, per usare un eufemismo, e in forma
“semiclandestina” a Guello, in provincia di Como, e ad Alpicella
nell’entroterra ligure in provincia di Savona, senza essere
“pubblicizzati” troppo per timore di nuovi disordini. Già dai volantini
di presentazione, che parlavano di cucina macrobiotica, meditazioni,
yoga, massaggi zen, si può intuire la rottura rappresentata dall’ultimo
festival del Parco Lambro[59].
Nell’ottica di superare la mera dimensione di rivista e di divenire un
più rilevante centro di elaborazione controculturale "Re Nudo" si era
anche dotato di un’ampia sede in via Maroncelli 2, dove si
organizzavano happening teatrali, concerti, cineforum, conferenze, e
così via; locale chiuso nel marzo 1974 in seguito ad una violenta
irruzione dei carabinieri in cerca di droga; l’operazione si concluse
con l’arresto di 67 persone, tutte successivamente prosciolte
dall’accusa di spaccio o detenzione di sostanze stupefacenti[60]; la
sede, devastata dal blitz delle forze dell’ordine, invece non verrà più
riaperta. Relativamente simile si rivelò l’esperienza di Macondo[61],
sorta per iniziativa di Mauro Rostagno, allora ex militante di Lotta
Continua in seguito ucciso in un agguato mafioso in Sicilia nel
settembre 1988. Situato in via Castefidardo 7, Macondo (nome
esplicitamente tratto dal romanzo Cent’anni di solitudine di Gabriel
García Márquez) era sorto nell’ottobre 1977 come un locale che si
proponeva di essere un «luogo di incontro, aggregazione, comunicazione
del movimento», e dove per questo scopo si trovavano «un ristorante, un
bar, negozi di artigianato, un cinema, una biblioteca e poi una scuola
di danza, collettivi fotografici, grafici, audiovisivi»; era, per usare
le stesse parole di Rostagno, «frequentato da tutti a Milano, dai
giovani, dai freaks, dalla ex nuova sinistra, da molti intellettuali,
da molti democratici»[62]; a Macondo infatti potevi incontrare:
gli intellettuali, i sottoproletari della cintura, i ragazzini scappati
di casa a 15 anni, i radical-chic, i poveri e i ricchi, quelli delle
classi alte e quelli delle classi basse e quelli che non avevano
classe, c’erano donne e maschi, c’era gente che non sapeva se era
maschio o femmina, gente che pensava di essere maschio essendo donna e
viceversa, gente che non pensava nulla, i pazzi, gli emarginati, gli
sfigati, i curiosi, chi veniva lì per parlare bene, chi per parlare
male[63].
Vi si erano tenuti incontri con il filosofo André Glucksmann e lo
psichiatra David Cooper, una mostra del disegnatore Moebius, un
convegno di Magistratura democratica. Macondo fu anche casa editrice
d’arte avendo prodotto una serie di cartelle litografiche fatte
appositamente da artisti del calibro di Valerio Adami, Enrico Baj, Jean
Michel Folon, Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Luciano Minguzzi, Henry
Moore e altri ancora. Va inoltre ricordato come Macondo non ebbe buoni
rapporti con partiti e movimenti della sinistra milanese: il PCI, l’MLS
(Movimento Lavoratori per il Socialismo), la stessa Autonomia operaia
accusavano i frequentatori di Macondo di disimpegno politico[64]. In
seguito ad intervento della polizia, in cerca di prove su una presunta
attività di spaccio di droga nei suoi locali, Macondo venne chiuso il
22 febbraio 1978[65]. La causa scatenante l’operazione della polizia e
la chiusura del locale fa data dalla distribuzione al Macondo del
facsimile di un biglietto del tram con scritte che invitavano
all’utilizzo dello stesso biglietto come filtro per spinelli; arrestati
e rinviati a giudizio anche i protagonisti della breve esperienza di
Macondo, così come quelli della sede di “Re Nudo”, furono poi
prosciolti in sede processuale.
3. I Circoli del proletariato giovanile e altre esperienze
controculturali degli anni '70
Fortemente connessa al contesto creato da Re Nudo fu la breve
esperienza dei Circoli del proletariato giovanile[66], che durò per il
biennio ’75-’76; scevri da settarismi ideologici e da vincoli dogmatici
i Circoli si caratterizzarono per risultare l’ala creativa del
movimento, esaltando il motivo della festa, dell’happening quale
imprescindibile momento rivoluzionario[67]. Come si legge sulla loro
più nota pubblicazione, intitolata significativamente, Sarà un risotto
che vi seppellirà, i principali riferimenti politico-culturali dei
circoli erano Marx, Mao e Dioniso[68] (successivamente vengono citate
come altre fonti ispiratrici la filosofa ungherese Ágnes Heller, lo
psichiatra martinicano Frantz Fanon e il generale vietnamita Giáp)[69].
Fra le attività dei Circoli, oltre all’occupazione di spazi pubblici e
privati non utilizzati[70], vanno ricordate la festa di primavera del
21 marzo 1976, la caccia al tesoro del 26 settembre 1976, dove il
tesoro in palio era mezzo etto di erba da fumare nascosto nel centrale
Parco Sempione, vicino al Castello Sforzesco[71], e soprattutto
l’“Happening nazionale del proletariato giovanile”, tenutosi
all’Università degli Studi di Milano il 27-28 novembre 1976, che si
concluse male con la spaccatura dei partecipanti fra una parte definita
«freaks», legata ancora a visioni di vita underground e hippie, e una
parte, maggioritaria, ormai dedita decisamente solo alla lotta
politica, dal momento che, come recitava un loro slogan, «portare i
capelli lunghi non ci basta più»[72]. Si legge infatti in un documento
stilato a conclusione dell’Happening:
Nel dibattito, nella festa, nei due giorni di “vivere insieme” sono
emerse due concezioni radicalmente contrastanti. C’erano i reduci del
Lambro, inguaribili sacerdoti del culto dello spinello che ci hanno
propinato due giorni di asfissianti sbrodolate para-esistenzialiste;
c’era il nuovo movimento giovanile, quello che si coagula intorno ai
centri sociali, quello della lotta al caro-cinema, quello dei
disoccupati organizzati. Due modi di differenti e contrastanti di
concepire il movimento, il suo ruolo rivoluzionario.
Gli estensori dello scritto concludevano stigmatizzando il
comportamento dei primi, «a questo manipolo di cattolici travestiti da
freak hanno risposto i proletari del movimento», e qualche riga sotto
accusando costoro, «i destri», di non aver impedito distruzioni e
saccheggi avvenute durante il convegno alla sede universitaria: «hanno
permesso a un pugno di manigoldi di sputtanare l’iniziativa, devastando
l’università»[73]. Rivendicando «il diritto al caviale», e non solo
«alla pastasciutta»[74], per citare un altro loro famoso slogan, i
Circoli furono fra i protagonisti della dura contestazione alla prima
della Scala del ’76. Sempre nell’ottica di rendere “proletari” piaceri
borghesi i Circoli adottarono pratiche di autoriduzione nei
cinematografi di prima visione e ai concerti delle star della musica
rock. Nello sforzo di divenire una voce significative all’interno della
galassia extraparlamentare i Circoli si dotarono di un giornale,
“Viola”, che appunto servisse da organo di collegamento fra i vari
circoli[75].
La vicenda dell’underground milanese ruotò, come si è detto, in misura
fondamentale attorno all’esperienza di “Re Nudo”, giornale e movimento;
per limiti di spazio ci si limiterà solo a ricordare alcuni giornali,
riconducibili all’underground milanese, fra i tanti che videro la luce.
Si è già fatto riferimento alla figura di Simonetti e alle sue
pubblicazioni; accanto a queste vanno menzionate la già citata rivista
musicale “Get Ready” curata da Ines Curatolo e Barnaba Fornasetti, il
cui numero zero, uscito nel 1972, arrotolato su se stesso e con la
prima pagina riportante i colori della bandiera italiana, aveva le
sembianze di un grande spinello; su “Get ready” si insiste sulla carica
rivoluzionaria e controculturale della musica rock e di conseguenza si
auspica la gratuità dei concerti; la rivista uscì con altri 4 numeri
sempre nel 1972[76]. Per quello che riguarda i fumetti vanno ricordate
“Puzz. Controgiornale di Sballofumetti”, nato nel 1971 per iniziativa
di Max Capa (pseudonimo di Nino Armando Ceretti), il cui personaggio
principale era un aggressivo uccellaccio nero, di nome Folaga, con
grandi scarponi pronto sempre a mettersi ostinatamente fuori dal
coro[77]; e “Insekten Sekte”, foglio psichedelico di impronta sixties
disegnato da Matteo Guarnaccia, i cui 17 numeri uscirono fra il 1969 e
il 1975 e venivano venduti per strada[78].
Un discorso a parte merita l’esperienza de’ “L’erba voglio”, bimestrale
anti-autoritario il cui sottotitolo era “servitù e liberazione di
massa”, pubblicato a Milano fra il 1971 e il 1977 per iniziativa di
Elvio Fachinelli e Lea Melandri. La rivista uscì sull’onda della
partecipata discussione che aveva suscitato la pubblicazione per
Einaudi dell’omonimo libro L’erba voglio in cui erano raccolte varie
testimonianze ed esperienze relative all’educazione negli asili, scuole
elementari e medie da parte di insegnanti che rifiutavano metodi
autoritari; si trattò di un vero e proprio “successo” editoriale con
cinquantamila copie vendute e cinque ristampe consecutive[79]. Dal
libro al giornale cambiò il sottotitolo; da «pratica non autoritaria
nella scuola» a «servitù e liberazione di massa», ciò non significava
l’abbandono della tematica scolastica ma il voler estendere
l’antiautoritarismo a più ampi ambiti, «dalle istituzioni più
direttamente interessate alla formazione ideologica, a tutti i momenti
della vita sociale in cui si riproducono i meccanismi di soggezione al
potere»[80]; e pertanto nella rivista si parlava, oltreché di
educazione, anche di antipsichiatria, di femminismo, di antimilitarismo
e altri temi declinati in maniera controculturale[81].
4. Punk
A Milano, il punk arrivò presto, già nel 1977, facendo però fatica a
trovare un proprio spazio nei movimenti giovanili, in quel preciso
momento interessati a ben altre metodologie di lotta politica; ancora
per tutti gli anni finali del decennio nella nostra città il punk non
era certamente un movimento strutturato, lo diventerà nei primi anni
ottanta con l’esperienza dello spazio occupato Virus di via Correggio
18. Le difficoltà del movimento punk a Milano in quel suo primo anno di
esistenza sono bene evidenziate da uno dei protagonisti, Marco
Philopat, nel suo romanzo autobiografico:
è un periodo molto strano – ci sono molti conoscenti interessati a
cambiare aria e vedono in noi punk una via d’uscita – molti altri sono
scettici – sostengono che non possiamo durare a lungo conciati come
siamo – si moltiplicano le provocazioni nel tentativo di far venire a
galla la nostra ingenuità – soprattutto l’autolesionismo di cui
blaterano i giornali sul tipo spille da balia nelle guance[82].
Inoltre, come ricorda sempre Philopat, da parte dei movimenti politici
di sinistra vi è un forte «pregiudizio» nei confronti dei punk; vi è
una certa errata identificazione, soprattutto da parte della cosiddetta
intellighenzia di sinistra, fra punk e fascismo; il gusto della
provocazione, che fa sì che alcuni accessori del look punk e alcuni
rimandi “etimologici” in canzoni e nomi delle band siano presi dal
“guardaroba” di un perfetto nazifascista, viene scambiato per adesione
ideologica: «c’è un pregiudizio diffuso tra i compagni più vecchi –
dicono che i punk sono fascistelli – i vestiti neri e le svastiche sono
le prove»[83]. Ha sottolineato a questo proposito Diego Curcio, come
per buona parte della sinistra «una sorta di sdoganamento» al punk
avvenne nel solamente 1979 con i concerti di Iggy Pop e successivamente
di Patti Smith alla Festa dell’Unità di Firenze; dopo questi importanti
eventi «i giovani borchiati e dai capelli colorati non vengono più
considerati dei semplici teppisti o dei fascisti da perseguitare, ma
dei ragazzi eccentrici che stanno dalla parte ‘giusta’»[84].
Nei primi anni il punk milanese appare più come un insieme di singole
sensibilità, di «aggregazioni informali, di strada», secondo la
definizione di Beppe De Sario, che nota come nel capoluogo lombardo i
giovani punk «per la gran parte provengano da un retroterra sociale
operaio e popolare, emergente dall’ambiente dell’emigrazione
meridionale che ha investito specialmente le nuove periferie milanesi
nel corso degli anni ’50 e ’60», e come comincino a gravitare nel
centro città «per attività legate allo svago, alla frequentazione di
locali, circoli politici e concerti»[85]. Secondo Claudio Pescetelli,
la nascita di una scena punk milanese appare invece frammentata in 4
livelli assai diversi fra di loro. I primi due, per la verità, hanno
finalità meramente commerciali; c’è infatti un tentativo da parte del
mercato discografico di ripetere i successi di vendita di gruppi
inglesi come i Sex Pistols, e quindi si tenta, per la verità con
scarsissimi risultati, di creare un mercato musicale punk “autarchico”
(Chrisma, Decibel, Incesti); analogamente vi sono stilisti che,
strizzando l’occhio a Vivienne Westwood, cercano di proporre sul
mercato una moda “punk” (ci si riferisce soprattutto allo stilista Elio
Fiorucci); ma accanto a questi progetti meramente speculativi (l’autore
definisce «disprezzabile» soprattutto il secondo) vi è anche la lenta
nascita di un microcosmo punk, destinato in breve tempo a
politicizzarsi, che inizia a prendere contatto con i settori più
libertari della scena politica milanese (mentre da altri, come si è già
visto, e soprattutto da Movimento Lavoratori per il Socialismo sarà
osteggiato perché reputato “fascistoide”, come ricorda Tiberio uno dei
primi punk milanesi)[86] in modo da poter trovare spazi aggregativi –
che non fossero il negozio di dischi New Kary di via Torino o il sabato
alla Fiera di Senigallia – di formazione e di diffusione della
controcultura punk (il centro sociale Santa Marta nell’omonima via
centrale di Milano fu il primo a ospitare i punk nella sua sede); e poi
c’è un’anima artistico-situazionista, che avrebbe trovato un proprio
spazio performativo presso il locale autogestito Vidicon, e che aveva
precedentemente dato vita alle iniziali fanzine punk milanesi: la prima
di queste, uscita già nell’ottobre del ’77, si chiamava “Dudu” e venne
stampata in 1000 copie, per poi trasformarsi nel gennaio dell’anno
successivo, con il secondo numero (in tutto verranno pubblicati 6
numeri) in “Pogo”, sulle cui pagine compaiono le prime traduzioni dei
testi delle band punk inglesi. Nel marzo del ’79 viene dato alle stampe
“Xerox” (la rivista viene infatti interamente stampata con la
fotocopiatrice) per iniziativa della punk milanese Rosso Veleno;
rivista che oltre a dedicare spazio alla ben più consistente scena punk
inglese, inizia a occuparsi anche di punk italiano, e soprattutto
milanese[87]. E a Milano, il 9 dicembre 1978 alla Palazzina Liberty nel
parco di Largo Marinai d’Italia, si terrà il primo festival punk
italiano, peraltro poi chiusosi in anticipo causa frequenti litigi fra
le band e il pubblico: «non certo un successo, ma pur sempre un evento
fondamentale» per la storia milanese di questo movimento[88]. Come ha
notato sempre Pescetelli, quello della fine degli anni ’70 sarà una
sorta di «rodaggio» per il movimento punk milanese, che poi si
esplicherà al meglio delle sue potenzialità controculturali ribelli nei
primi anni del decennio successivo: «esattamente come accadde nel 1966
con il movimento beat, anche il punk iniziò a cementarsi attraverso un
percorso di autorappresentazione e un costante nomadismo che gli
permise di radicarsi gradualmente nel tessuto urbano»[89]; anche se,
come ebbero giustamente a notare Nanni Balestrini e Primo Moroni, i
tempi del presente e le prospettive per il prossimo futuro della
società erano profondamente mutate, in negativo, sotto ogni aspetto, e
pertanto:
I giovani che vengono sulla scena dopo il ’77 sono in effetti ben
diversi da quelli che li avevano preceduti; essi sono gli spettatori
del crollo dei miti sociali del moderno: la crisi di prospettiva della
società moderna appare loro come il venir meno di ogni possibilità di
futuro. Il punk è, in questo senso, la lucida consapevolezza di un
mutamento epocale[90].
Dai beat ai punk, dal ’67 al ’77, Milano si era comunque popolata, in
maniera caleidoscopica e continuativa, di giovani, di pubblicazioni, di
iniziative, di concerti, di manifestazioni, di luoghi d’aggregazione e
così via che fornirono una sicura vivacità underground e
controculturale alla città, «una storia sublime e tragica» come fu già
ai tempi definita[91]; una storia composta da momenti a loro modo
importanti per la Milano contemporanea, e che probabilmente meritano
ulteriori approfondimenti storiografici.
Note
1 Ignazio Maria Gallino (a cura di), 1965-1985 Venti anni di
contocultura. Frammenti storici dell’underground italiana, Milano,
Ignazio Maria Gallino editore, 2016; i due passi citati si trovano nel
risvolto di copertina. Questo libro è ovviamente imprescindibile per
chiunque voglia affrontare le controculture italiane e qui citato, per
così dire, “una volta per tutte”; via via nelle note seguenti saranno
segnalati altri studi e saggi relativi ai temi affrontati nel saggio.
2 Primo Moroni, Il movimento beat e i suoi giornali, in “Gli anni
affollati”, 1984; ora in Gallino (a cura di), 1965-1985 Venti anni di
contocultura, cit., p. 35.
3 Per una guida coeva al decennio trattato della Milano underground e
controculturale si veda, Giuseppe Ricci, Claudio Marras, Mauro Radice,
Milano alternativa. Frammenti di controcittà, Milano, SugarCo, 1975.
4 «La si potrebbe chiamare, tanto per usare quel loro gergo infarcito
di americanismi, “New Barbonia”: è una tendopoli che sorge in fondo a
via Ripamonti, al Vigentino […] È un vero e proprio villaggio beat con
una trentina di tende e una popolazione fluttuante di capelloni», Un
villaggio di capelloni sulle rive del Vetabbia, in “Il Corriere della
Sera”, 17 maggio 1967, p. 8; e ancora qualche giorno dopo, «“New
Barbonia”, la tendopoli beat […] non è soltanto un villaggio di anonimi
vagabondi, di zazzeruti filosofi dell’ultima anarchia, di neo barboni
che hanno fatto dell’ozio un’abulica forma di religione. È anche un
ricetto per quei giovanissimi sbandati che, scappando di casa,
inseguono le chimeriche visioni di vita facile, con conseguenze quasi
sempre amarissime», Incursione di genitori disperati tra i capelloni di
“Nuova Barbonia”, in “Il Corriere della Sera”, 24 maggio 1967, p. 8; in
un altro articolo, il giorno prima dello sgombero in occasione di un
primo scontro con la polizia si riportava come fosse frequentato da
«capelloni, neoninfette, provos e diseredati del genere», e si
paragonava la reazione dei beat milanesi alla perquisizione delle forze
dell’ordine a quella «brutale e pericolosa dei mods e dei rockers
inglesi», Furibonda battaglia tra polizia e capelloni stanati dal
villaggio beat di Nuova Barbonia, in “Corriere della Sera”, 11 giugno
1967, p. 8.
5 Citato in Guido Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli
anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003 p. 195.
6 Guido Pfeiffer, Ho vissuto con capelloni e sbarbine in una tenda di
Barbonia City, in “La Notte”, 30 maggio 1967, p. 6; secondo l’autore
dell’articolo il campeggio beat era frequentato da «questi giovani
strani e queste libere, sfrenate ragazzine scappate di casa».
7 Raso al suolo dalla polizia il villaggio “beat” di Nuova Barbonia, in
“Il Corriere della Sera”, 13 giugno 1967, p. 8.
8 Silvia Casilio, Una generazione d’emergenza. L’Italia della
controcultura (1965-1969), Firenze, Le Monnier, 2013, p. 118.
9 Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro 1968-1977. La grande
ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano,
Feltrinelli, quinta edizione riveduta, 2008, p. 101.
10 Su alcune di queste traiettorie biografiche si veda soprattutto
Matteo Guarnaccia, Underground italiana. Gli anni gioiosamente ribelli
della controcultura, Milano, ShaKe, 2011.
11 Daniela Calanca, Gruppo e famiglia, in Paolo Sorcinelli, Angelo
Varni (a cura di), Il secolo dei giovani. Le nuove generazioni e la
storia del Novecento, Roma, Donzelli, 2004, pp. 175-178.
12 Sui beat milanesi, oltre ai testi già citati in altre note, si veda
il romanzo biografico su Melchiorre Gerbino, uno dei rappresentanti più
in vista del movimento assieme a Vittorio Di Russo e Marco Tiboni, di
Marco Philopat, I viaggi di Mel, Milano, ShaKe, 2004.
13 Il nome “Onda verde” viene dal movimento pacifista americano “Green
Wave” in cui militava fra gli altri Joan Baez, cfr. Tiziano Tarli, Beat
italiano dai capelloni a Bandiera Gialla, Roma, Castelvecchi, 2007, p.
117.
14 Si veda soprattutto Matteo Guarnaccia, Beat e Mondo Beat. Chi sono i
beats, i provos, i capelloni, Roma, Stampa alternativa, 2005.
15 I numeri della rivista sono stati ripubblicati in Gianni De Martino,
Marco Grispigni, I capelloni. Mondo beat, 1966-1967. Storia, immagini,
documenti, Roma, DeriveApprodi, 1997, pp. 59-240; e successivamente in
forma anastatica in un CD allegato a Capelloni & ninfette: Mondo
beat, 1966-1967: storia, immagini, documenti, a cura di De Martino,
Milano, Costa & Nolan, 2008.
16 Questi motivi di dissenso e di malessere da parte dei giovani nei
confronti della società di allora si possono leggere anche in Sandro
Mayer (a cura di), Lettere dei capelloni italiani, Milano, Longanesi,
1968.
17 Così Fernanda Pivano, nel 1976, ebbe modo di ricordare la breve ma
seminale esperienza della sua rivista: «la stagione di “Pianeta Fresco”
finì senza morire, con la proposta di decondizionamento e comunicazione
valide per sempre, con la certezza della esigenza di Diritti Civili
caparbiamente difesa, con la speranza o il sogno o l’utopia di
repressioni e di eccidi evitati se il capitale fosse stato evitato, con
l’immagine di un mondo pulito, di gente pulita, di consapevolezze
pulite. “Pianeta fresco” fu questo e peggio per i pochi di noi che in
quella speranza/sogno/utopia hanno creduto», C’era una volta un beat.
10 anni di ricerca alternativa, Milano, Frassinelli, 2003, p. 118
(prima ed. 1976).
18 Pablo Echarruen, Claudia Salaris, Controcultura in Italia 1966-1977.
Viaggio nell’underground, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 73-81.
19 Sull’esperienza britannica di Release si veda Mario Maffi, La
cultura underground, Bologna, Odoya, 2009, pp. 96-97.
20 Citato in Echarruen, Salaris, Controcultura in Italia 1966-1977,
cit., p. 141.
21 Alberto De Bernardi, Il sessantotto italiano, in Marcello Flores, De
Bernardi, Il sessantotto, Bologna, il Mulino, 2003, p. 172.
22 Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in
America, Roma, Editori Riuniti, p. 34.
23 Nota ad esempio Diego Giachetti, «quella del movimento studentesco
[…] era una protesta che pur ponendosi per molti aspetti in continuità
con quella dei capelloni e dei beat, aveva caratteristiche più marcate,
tali da decretare la fine di un periodo e l’inizio di uno nuovo», Anni
sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti
negli anni della contestazione, Pisa, BFS, 2002, p. 170.
24 Casilio, Una generazione d’emergenza, cit., pp. 153-155. E come ha
notato Luca Gorgolini, se i beat «erano propugnatori di una cultura
alternativa (controcultura) protesa ad abbandonare il sistema piuttosto
che modificarlo radicalmente, gli aderenti al movimento studentesco
esprimono una “cultura del conflitto”, antagonistica, che mira ad
abbattere il sistema stesso», Un mondo di giovani. Culture e consumi
dopo il 1950, in Paolo Sorcinelli (a cura di), Identikit del Novecento.
Conflitti, trasformazioni sociali, stili di vita, Roma, Donzelli, 2004,
p. 342.
25 John Martin, Primo Moroni, La luna sotto casa, Milano, ShaKe, 2007,
pp. 124-125.
26 Rudy Dutschke, La ribellione degli studenti, Milano, Fetrinelli,
1968, p. 72; Diego Giachetti giudica il parallelismo «un po’ ardito ma
senz’altro efficace», Anni sessanta comincia la danza, cit., p. 193.
27 Silla Ferrandini, I fiori chiari. Il romanzo della beat generation
milanese dal ’66 al ’69, Milano, OTMA Edizioni, 2006, p. 92; i fiori
chiari evocati nel titolo sono un riferimento a via Fiori Chiari, che
si trova nel quartiere Brera di Milano, altro luogo di frequentazione
beat in quegli anni.
28 Sulla vicenda complessiva di “Re Nudo” si rimanda soprattutto alla
monografia di Alessandro Bertante, Re Nudo. Underground e rivoluzione
nelle pagine di una rivista, Rimini, NdA press, 2005.
29 Andrea Valcarenghi, Underground: a pugno chiuso, Rimini, NdA press,
2007 (prima ed. 1973).
30 Timothy Leary, una fuga rivoluzionaria, in “Re Nudo”, a. I, n. 0
novembre 1970, p. 7; La nuova mistica di Timothy Leary, in “Re Nudo”,
a. I, n. 0 novembre 1970, p. 10; Lettera di Timothy Leary, in “Re
Nudo”, a. I, n. 1 dicembre 1970, p. 2.
31 Huxley da intellettuale a visionario, in “Re Nudo”, a. I, n. 1
dicembre 1970, p. 9.
32 William Burroughs “l’ultimo scrittore”, in “Re Nudo”, a. II, n. 5,
maggio 1971, pp.12-13.
33 Allen Ginsberg contro porci, anfetamine e sistema, in “Re Nudo”, a.
III, n. 10, gennaio-febbraio 1972, p. 12.
34 Angela Davis, in “Re Nudo”, a. I, n. 0 novembre 1970, p. 11.
35 Kate Millet, Un manifesto per la rivoluzione, in “Re Nudo”, a. II,
n. 3, marzo 1971, pp. 16-17.
36 John Sinclair, Rock +Guerra di popolo contro la musica e la classe
dei padroni, in “Re Nudo”, a. III, n. 10 gennaio-febbraio 1972, p. 6.
37 Jerry Rubin, Liberato il compagno J. Sinclair, in “Re Nudo”, a. III,
n. 11 marzo 1972, pp. 8-9.
38 Revolutionary People’s Costitucional Convention, “Re Nudo”, a. I, n.
1 dicembre 1970, p. 14.
39 Bernardine Dohrn, Weather Undeground. Usciamo alla luce del sole e
uniamoci alle masse, in “Re Nudo”, a. II, n. 4 aprile 1971, pp. 10-12.
40 Programma politico delle White e Black Panthers, in “Re Nudo”, a. I,
n. 1 dicembre 1970, p. 15; Intervista con George Jackson prima
dell’assassinio, in “Re Nudo”, a. II, n. 9, novembre-dicembre 1971, pp.
14-16.
41 Young Lords da teppisti a rivoluzionari, in “Re Nudo”, a. II, n. 2,
gennaio-febbraio 1971, pp. 16-17.
42 Editoriale senza titolo, in “Re Nudo”, a. I, n. 1, dicembre 1970, p.
3.
43 Sante Notarnicola “bandito”, in “Re Nudo”, a. I, n. 0, novembre
1970, pp. 14-15; Dichiarazione di Sante Notarnicola, in “Re Nudo”, a.
II, n. 8, ottobre 1971, p. 16; Il “bandito” è diventato comunista, in
“Re Nudo”, a. II, n. 9, novembre-dicembre 1971, pp. 10-11.
44 Editoriale senza titolo, cit., p. 3.
45 Brigate Rosse: comunicati nn. 1, 2, 3, 4, 5, 6, in “Re Nudo”, a. II,
n. 4 aprile 1971, p. 9.
46 Mino Monicelli, L’ultrasinistra in Italia, 1968-1978, Bari, Laterza,
1978, p. 76.
47 Relazione di Re Nudo al 1° Convegno nazionale “Oltre l’underground”,
in “Re Nudo”, a. IV, n. 21 settembre 1973, p. 2. Altre relazioni si
possono leggere in Interventi dal primo “Oltre l’underground”, ivi, nn.
22-23, novembre 1973, pp. 2-6.
48 Valcarenghi, Underground, cit., p. 120.
49 Cosa vogliamo e perché nascono le Pantere Bianche di Re Nudo, in “Re
Nudo”, a. III, n. 10, gennaio-febbraio 1972, pp. 3-4.
50 Valcarenghi, Underground, cit., p. 134.
51 Gianni Emilio Simonetti, Riccardo Sgarbi, Guido Vivi, …Ma l’amor mio
non muore, Roma, Arcana, 1971; successive riedizioni Roma,
Castelvecchi, 1997; Roma, DeriveApprodi, 2008.
52 Uaauuu!!!, in “Re Nudo colpo di mano”, a. II, n. 6 (n.1 nuova serie)
giugno 1971, p. 3.
53 Sulla miniscissione. Chiudiamo l’argomento, in “Re Nudo”, a. II, n.
7 settembre 1971, p. 3.
54 Lettera di alcuni amici romani che sono usciti da Re Nudo, in “Re
Nudo”, a. III, n. 10, gennaio-febbraio 1972, p. 8.
55 Senza fucile niente rivoluzione. Risposta alla lettera di alcuni
fratelli romani, in “Re Nudo”, a. III, n. 10, gennaio-febbraio 1972, p.
8.
56 Francesco Ciaponi, Underground. Ascesa e declino di un’altra
editoria, Milano, Costa & Nolan, 2007, p. 143.
57 Su questi festival si veda soprattutto Matteo Guarnaccia, Re Nudo
pop & altri festival. Il sogno di Woodstock in Italia, Milano,
Vololibero, 2010; inoltre il dialogo fra Francesco Schianchi, uno degli
organizzatori dei festival, e Franz Di Cioccio, batterista della
Premiata Forneria Marconi, in LibroLambro. I festival giovanili, sogni
e utopie di ieri per oggi, Milano, Aereostella, 2013. Un particolare
della locandina della sesta Festa del proletariato giovanile (Milano,
Parco Lambro, 26-29 giugno 1976) è riportata nell'immagine di apertura
di questo articolo.
58 Bertante, Re Nudo, cit., p.162. «Giro di boa» è il termine usato da
Martin per sottolineare come dopo questa Festa, «si trasformano anche i
vecchi Circoli del Proletariato Giovanile, svuotatisi dopo la crisi»,
per ricomparire nel novembre dello stesso anno con denominazioni,
finalità e metodologie diverse, spianando la strada al ’77; La luna
sotto casa, cit., p. 154. Diversa la interpretazione di Marisa Rusconi
di poco posteriore ai fatti: il Parco Lambro non fu «l’ultima festa del
movimento», ma semmai un necessario momento di passaggio, infatti
«dallo sfacelo del mito di un certo modo di stare assieme» si passò ad
altre forme di aggregazione giovanile, quale quella di Bologna nel
settembre 1977, dove ci fu «un festival senza orchestre e divi
pop-rock, senza danze collettivi e girotondi di corpi nudi sotto la
pioggia, ma con lunghi e anche gioiosi cortei, canti e slogan» e con
«un’intera città per palcoscenico, anziché un recinto grande molti
chilometri, ma pur sempre ghetto dell’emarginazione e
dell’autoemarginazione, un parco spelacchiato, e ricoperto di rifiuti,
ai margini della metropoli», concludendo appunto che «la manifestazione
di Bologna è stata la giusta risposta al fallimento del Parco Lambro
[…] nel passaggio dalla politica della festa alla festa della
politica», Introduzione a Franco Ortolani, La Festa del Parco Lambro.
Libro fotografico, Padova, Mastrogiacomo editore, pp. 4-5, 15.
59 "Dalle centomila solitudini del Lambro alla aggregazione con se
stessi di Guello" è il significativo titolo del capitolo in cui
Valcarenghi ebbe modo di trattare i festival da lui organizzati; Non
contate su di noi. Note critiche su: movimento giovanile, violenza
politica, ideologia, sessualità, droga e misticismo, Roma, Aracne,
1977, p. 42.
60 Bertante, Re Nudo, cit., pp. 142-143.
61 Su Macondo si veda soprattutto Mauro Rostagno, Claudio Castellacci,
Macondo. La storia del “luogo magico” di Milano nel racconto del suo
principale protagonista, Milano, SugarCo, 1978.
62 Ivi, pp. 41-45.
63 Ivi, pp. 82-83.
64 Come ricordò lo stesso Rostagno: «non avevamo contro solo certa
gente, ma anche certa sinistra. Il fatto che io non facessi più
politica, in alcuni ambienti della sinistra, era considerato un
tradimento. Non ero più un “compagno”. Scrivevano sui muri: “Rostagno
prima ci davi la linea ora ci dai il vino» (ivi, p. 91).
65 Si veda a questo proposito il numero unico di
“Macondolore-Macondolcezza”, 1978, che così denunciava l’irruzione
della polizia: «quello che si vuol colpire è un centro di incontro e di
produzione artistica e culturale. A questi signori non garba che a
Milano esista un luogo dove i giovani possano costruirsi un’alternativa
alla disperazione dell’eroina e allo squallore mortale di questa città
fatiscente».
66 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro 1968-1977, cit., p. 512.
67 Come auspicava lo stesso Valcarenghi nel 1977 «le feste si
moltiplicheranno, ogni quartiere ha la sua, ogni sabato ai centri
sociali, feste su feste. Il dover divertirsi diventa una forma di
militanza, una sorta di dover essere sotto nuova forma», Non contate su
di noi, cit., p. 13.
68 Sarà un risotto che vi seppellirà. Materiali di lotta dei Circoli
proletari giovanili di Milano, Milano, Squilibri edizioni, 1977, pp.
10-11.
69 Ivi, p. 13 e p. 125.
70 Si veda a questo proposito Claudia Sorlini (a cura di), Centri
sociali autogestiti e circoli giovanili, Milano, Feltrinelli, 1978.
71 Sarà un risotto che vi seppellirà, cit., pp. 74-77.
72 Ivi, p. 137.
73 Ivi, pp. 99-100. Alcuni interventi al Convegno si possono leggere in
appendice a Gabriele Martignoni, Sergio Morandini, Il diritto all’odio.
Dentro/fuori/ai bordi dell’area dell’autonomia, Verona, Bertani, 1977,
pp. 391-423.
74 Sarà un risotto che vi seppellirà, cit., p. 108.
75 Ivi, pp. 119-120.
76 Echarruen, Salaris, Controcultura in Italia 1966-1977, cit., pp.
151-152.
77 Ivi, pp. 189-191.
78 Ivi, pp. 194-195; di recente, alcune tavole della rivista sono state
ripubblicate in Matteo Guarnaccia, Cosmic playground. Hippy happy life
scenes. Insekten Sekte remix 1969-1975. Disegni e tracce
dall’Underground, Milano, Jubal editore, 2003.
79 Elvio Fachinelli, Luisa Muraro Vaiani, Giuseppe Sartori (a cura di),
L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola, Torino, Einaudi,
1971.
80 Lea Melandri, Antiautoritarismo e permissività, in “L’erba voglio”,
a. II, nn. 3-4 febbraio 1972, p. 24.
81 Sulle tematiche trattate nella rivista si veda soprattutto Lea
Melandri (a cura di), Il desiderio dissidente: antologia della rivista
“L’erba voglio” 1971-1977, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.
82 Marco Philopat, Costretti a sanguinare. Il romanzo del punk italiano
1977-1984, Torino, Einaudi, 2006, p. 25.
83 Ivi, p. 11.
84 Diego Curcio, Rumore di carta. Storia delle fanzine punk e hardcore
italiane dal 1977 al 2007, Genova, Redazione, 2007, p. 17; l’autore
ricorda come Patti Smith fu accolta con tutti gli onori da una
delegazione del PCI con Achille Occhetto in testa.
85 Beppe De Sario, Resistenze innaturali. Attivismo radicale
nell’Italia degli anni ’80, Milano, Agenzia X, 2009, p. 90.
86 Riferendosi proprio al ’77 Tiberio ricorda: «c’erano gli stalinisti
del MLS che quando potevano metterti le mani addosso lo facevano più
che volentieri: il punk per loro rappresentava una minaccia. Dicevano
che il punk era fascista, perché aveva il giubbotto di pelle e i
capelli corti. Ma in verità, secondo me, capivano e percepivano
benissimo cosa stava succedendo, sentivano anche loro che i tempi
cambiavano veloci e che con i loro slogan, invecchiati precocemente,
non sarebbero andati molto lontano. Li avevamo superati in freschezza e
genuinità», Tiberio, Il pogo dei Jumpers, in Marco Philopat (a cura
di), Lumi di punk. La scena italiana raccontata dai protagonisti,
Milano, Agenzia X, 2006, p. 104. In questo stesso libro, riferendosi
sempre ai rapporti fra punk e movimenti politici coevi, Cristina Xina
puntualizza come furono «gli anarchici e i libertari» a «comprendere
meglio la nostra attitudine, la nostra voglia di usare lo
strumento-arte come forma di ribellione» senza rifarsi necessariamente
al «volantino, megafono, striscione», Laboratori di sovversione
culturale, pp. 110-111.
87 Claudio Pescetelli, Lo stivale è marcio. Storie italiane, punk e
non, Roma, Rave up books, 2013, pp. 145 e ss. Gli indici dei 7 numeri
di “Xerox” (del n. 8 esistono solo alcune bozze mai completate) si
possono leggere in Curcio, Rumore di carta, cit., p. 37-38.
88 Pescetelli, Lo stivale è marcio, cit., p. 153.
89 Ivi, p. 143.
90 Balestrini, Moroni, L’orda d’oro 1968-1977, cit., p. 629.
91 Ricci, Marras, Radice, Milano alternativa, cit., p. 126. |
|